Neoliberalismo, neo-populismo, neo-autoritarismo. Nuova personalità autoritaria e collasso della democrazia – Alessandro Simoncini

Neoliberalismo, neo-populismo, neo-autoritarismo. Nuova personalità autoritaria e collasso della democrazia – Alessandro Simoncini

18 Aprile 2025 Off di Francesco Biagi

 

Questo testo indaga il rapporto che intercorre tra i tre concetti che compaiono nel titolo, mettendoli in tensione. Nella prima parte fornisce una definizione del neoliberalismo, per poi mostrare come esso abbia prodotto le condizioni di possibilità dell’affermazione di un neo-populismo sorto sulle rovine del neoliberalismo stesso. Nella seconda parte si sofferma sul neo-populismo di destra sostenendo che esso non è un’alternativa politica al neoliberalismo, come spesso si tende a credere, ma il suo rovescio osceno. La terza e ultima parte del testo sostiene che il neoliberalismo contiene da sempre un elemento strutturale di autoritarismo su cui, nel tempo presente, si innesta un autoritarismo neo-populista che accelera il collasso della democrazia rappresentativa.

 

  1. Nascita del neo-populismo dalle rovine del neoliberalismo

 

Con “neoliberalismo” non si intende qui soltanto il neoliberismo economico. Il neoliberalismo non è stato solo la risposta alle lotte sociali e alle politiche economiche keynesiane con cui negli ultimi decenni, a partire dalla crisi degli anni ’70, le classi capitaliste hanno realizzato un’enorme “concentrazione della ricchezza” – come ha scritto David Harvey –, ristabilendo e consolidando nel mondo il loro potere[1]. Certo, il neoliberalismo è stato naturalmente globalizzazione finanziaria, delocalizzazione produttiva, libera circolazione dei capitali e delle merci, privatizzazioni, riduzione del carico fiscale per i ceti abbienti, tagli alla spesa pubblica, smantellamento progressivo dello Stato sociale, precarizzazione del lavoro: tutte componenti di una vincente “lotta di classe dall’alto”, per dirla con Luciano Gallino[2]. Il neoliberalismo, però, è stato anche (ed è) una razionalità politica capace di modellare la società e le soggettività in base alle esigenze del mercato: una “nuova ragione del mondo” – per citare il titolo di un libro ormai classico – in base a cui un po’ ovunque gli Stati hanno adottato politiche capaci di estendere la logica aziendale e l’assiomatica concorrenziale ben oltre l’ambito economico: nell’amministrazione pubblica, nella giustizia, nell’Università, nella scuola, nella sanità, nelle relazioni sociali[3]. La continua diffusione dei processi di neoliberalizzazione ha così prodotto quella che Federico Chicchi e Anna Simone hanno definito “società della prestazione”: una società nella quali tutti gli individui – anche le lavoratrici e i lavoratori subordinati, anche le studentesse e gli studenti – sono soggetti all’“ingiunzione permanente alla prestazione” e vengono spinti ad auto-percepirsi (poi a progettarsi) come performativi imprenditori di se stessi continuamente sollecitati a investire sul proprio capitale umano, da impiegare senza posa nella concorrenza di mercato[4]. E la “norma prestazionale”, insieme all’assiomatica concorrenziale, viene oggi inscritta “ancor più in profondità nelle pratiche sociali […] attraverso l’applicazione dei dispositivi digitali”[5]. In quest’ottica la concorrenza diventa l’unica potenza energetica capace di dare forma a una società efficiente che si vuole al riparo dal conflitto sociale e capace di garantire la realizzazione personale dei soggetti: la loro libertà, il loro godimento, in una parola la loro felicità[6].

Del resto, non si capirebbe l’egemonia che il neoliberalismo ha avuto per decenni se non la si mettesse in relazione a questa promessa di felicità (non mantenuta) che ha fatto leva su un’euforica esaltazione della libertà individuale. In questo senso Laura Bazzicalupo ha sostenuto che, fin dall’inizio, il neoliberalismo è stato “un programma contro-egemonico e di parte” centrato sul riferimento alla libertà[7]. Questo programma, cioè, ha sempre puntato a modificare in profondità il rapporto delle persone con il sociale: un rapporto “a lungo plasmato dalla solidarietà e dalla tutela assistenziale dei diritti sociali” che, grazie alla sussunzione della “spinta libertaria e anti-autoritaria dei movimenti degli anni Settanta”, il programma neoliberale è riuscito a trasformare trasvalutando la libertà emancipatoria e collettiva di quei movimenti in una libertà individualistica e privata[8]. Anche Gary Gerstle ha osservato che fin dai suoi inizi il neoliberalismo americano si fonda sul “recupero della promessa di libertà personale, che era stata così decisiva per il liberalismo classico”, e sulla promessa “di mettere a disposizione di tutti un tipo speciale di libertà, che avrebbe dato agli individui la facoltà di strutturare la propria vita” in autonomia dalle  grandi aziende o dallo Stato[9]. Al centro del discorso neoliberale sta dunque, per Gerstle, una “promessa di emancipazione e di individualità”[10]. Infine Massimo De Carolis ha sottolineato che in tutte le sue forme il neoliberalismo riconosce e valorizza certamente “la promessa di felicità logicamente intrinseca a ogni scelta di vita”, ma questo riconoscimento e questa valorizzazione avvengono solo nella misura in cui esso “promette, nel profondo, un consolidamento dei rapporti di potere”: perché il vero snodo critico dell’intera macchina neoliberale è “il valore della performatività”[11].

Negli ultimi decenni, insomma, un po’ ovunque il neoliberalismo è stato anche una vera e propria “politica della vita”[12]: un dispositivo biopolitico di produzione e di governo delle vite soggettive. È quanto ha sostenuto la filosofa statunitense Wendy Brown in un libro del 2015 intitolato Undoing the Demos[13]. La sua tesi è che negli ultimi decenni la ragione di governo neoliberale ha mirato letteralmente a disfare il popolo inteso come soggetto della democrazia rappresentativa. Ha puntato cioè a sciogliere gli homines politici, che quel popolo componevano, in una moltitudine di homines oeconomici: di soggetti che, avendo ormai interiorizzato l’imperativo della concorrenza, non possono più auto-percepirsi come il demos detentore del kratos rappresentativo e identificano invece “la propria performance di vita con quella del capitalismo”, puntando infine – come ha osservato Ida Dominijanni – ad aumentare il proprio “valore di portafoglio in tutti gli ambiti dell’esistenza”[14]. In altri termini, i soggetti messi in forma dalla ragione neoliberale si asservono volontariamente a quello che Dardot e Laval hanno definito “dispositivo performance-godimento”[15]: un dispositivo che esalta la “libertà di investire e di scommettere su di sé come sui futures in borsa”, e in cui solo chi ha successo nella performance può  aspirare a godere[16]. Per Brown il progetto principale di queste soggettività diventa quindi quello di “rafforzare il proprio posizionamento competitivo”, di accrescere ad oltranza il “valore futuro di sé […] per mezzo di pratiche di investimento su se stessi e di attrazione di investitori”: come oggi accade ad esempio “attraverso i follow, i like, i retweet dei social network”[17]. La narrazione neoliberale mette così in scena la “società dei capitalisti umani”: una “Ego-società” composta da individui che – come ha scritto Roberto Ciccarelli – “inghiottono” il mondo e che si vivono come soggetti sovrani; come individui liberi attivi in un ambiente competitivo che  non consente di acquisire gli “strumenti necessari per interpretare tale libertà come un processo collettivo”[18].

Criticando la tesi di Brown, Maurizio Ricciardi ha sostenuto che la razionalità programmatica neoliberale non mirava tanto a disfare il popolo come soggetto della democrazia rappresentativa, quanto a disciplinare e neutralizzare l’azione collettiva capace di “modificare l’ordine del sistema” e di contestare il “capitalismo come ordine sociale e modo di vita”[19]. Per raggiungere questo scopo – sostiene Ricciardi – non serve abolire la democrazia rappresentativa. Basta preservarne una forma indebolita, o se si vuole una post-democrazia in cui – in assenza di significative lotte per l’uguaglianza – le pratiche di governo neoliberali riproducono un ordine societario fondato sul “carattere povero e informale del lavoro”, sulla classificazione degli individui in base all’etnia, su nuovi “vincoli patriarcali”: un ordine, cioè, che include le differenze nella subalternità e accresce ad oltranza la diseguaglianza economico- sociale, facendone la norma del sistema[20]. Questo ordine post-democratico – sostiene Brown – si è affermato mentre il neoliberalismo rompeva “il contratto sociale post-bellico che aveva promesso sicurezza e un certo grado di mobilità sociale alle classi medie e operaie bianche”[21]. Quando però la disuguaglianza si amplia troppo e i ceti medi insieme alle classi subalterne si impoveriscono drasticamente, la crisi genera le condizioni di possibilità di una nuova età del rancore di massa[22]. È quello che è successo con la crisi iniziata nel 2007- 2008, quando si è passati repentinamente dalle promesse neoliberali di felicità alle politiche austeritarie: “dal carnevale alla quaresima”, come ha scritto efficacemente Mario Pezzella[23]. O, se si vuole, dal “neoliberalismo progressista” a un “neoliberalismo punitivo”[24]. Individui prima armati “dell’etica auto-imprenditoriale e del principio di prestazione” – assiomi su cui avevano investito anche i partiti della sinistra di filiazione social-democratica e comunista, finendo per dimenticare le classi popolari e l’importanza dei servizi pubblici – venivano ora incolpati di avere prodotto il debito[25]. Realmente impoveriti, questi individui sperimentavano la paura di cadere e il risentimento. L’incitazione al godimento consumistico, che nella stagione del neoliberalismo trionfante era diventato qualcosa di simile a un imperativo categorico affiancato dall’assiomatica della competizione, lasciava ora campo libero all’“etica della colpa” generata dal “dispositivo del debito”[26].

È in questo momento che “sulle rovine del neoliberalismo” – per citare il titolo di un altro bel libro di Wendy Brown – è riemerso con forza il neo-populismo sovranista[27]. Che si è rivolto a tutta una schiera di soggetti pronti “a difendere con le pistole sotto il cuscino” quello che avevano, e “con i muri sui confini quello che erano” – come ha icasticamente scritto Dominijanni[28]. Nel “momento populista” collocabile temporalmente tra la Brexit e la prima elezione di Donald Trump, questi soggetti hanno iniziato a chiedere “protezione, confini, sicurezza, conferme identitarie, primati di razza e di sesso, sovranità”[29]. E, in assenza di sinistra, “la destra ha brillantemente trasformato questa frustrazione in una rabbia razzista e sessista”[30]. I soggetti a cui la destra neo-populista si rivolgeva, però, restavano plasmati “nei comportamenti e nell’inconscio dai dispositivi di soggettivazione propri dell’etica neoliberale”[31]. Il soggetto neo-populista, insomma, non era altro dal soggetto neoliberale. Era lo stesso soggetto che, temendo di diventare un “forgotten marginale” della globalizzazione, mostrava ora per intero l’altro lato del suo volto: il lato osceno del razzismo, del suprematismo, del neo-patriarcato. O, se si vuole, il volto, ordinariamente fuori scena, della nuova personalità autoritaria neoliberale.

 

  1. Il neo-populismo come rovescio e supplemento osceno del neoliberalismo

 

In questo senso Slavoj Žižek ha sostenuto che i neo-populismi costituiscono il rovescio osceno del neoliberalismo[32]. Sono cioè “l’altra faccia del neoliberalismo”– come ha scritto Carlo Galli –, di cui “non riescono a mettere in discussione gli assetti strutturali in materia economica”[33]. Svolgono cioè la “funzione di conservare lo status quo e perpetuare così l’egemonia neoliberale” – ha aggiunto Dario Gentili –, rappresentando di fatto una “variazione […] all’interno del medesimo ordine del discorso neoliberale”[34]. I neo-populismi non rimettono infatti in causa né le politiche economiche neoliberali, come spesso invece promettono di fare in campagna elettorale –, né l’immaginario neoliberale dell’imprenditore di se stesso. Piuttosto, aggiungono a quell’immaginario e a quelle politiche un “supplemento osceno”[35]: un “invito indicibile al godimento” nell’identificazione con il capo e nella caccia ai nemici del popolo, ossia i presunti responsabili della crisi e del disordine, siano essi i migranti, i profughi, i tecnocrati di Bruxelles, i cattivi finanzieri, la casta dei politici, i “divanisti” del reddito di cittadinanza, i militanti lgbtqia+, i movimenti per la libertà della Palestina e altri ancora[36]. Con questo “invito indicibile” – ha scritto Stefano Visentin – i neo-populismi provano a compensare, “ovviamente solo sul terreno dell’immaginario”, la sofferenza: ossia “i sacrifici materiali imposti dalla fine del Welfare e del compromesso socialdemocratico”, oltre che la frustrazione psicologica dei più per non essere riusciti a diventare quei brillanti imprenditori di se stessi che pure ancora vorrebbero diventare[37].

Agitando l’immagine di sogno di un popolo sovrano “padrone in casa propria”, i neo-populismi promettono di restaurare la sovranità statuale e di difendere i cittadini nazionali da nemici interni che minaccerebbero il loro onesto lavoro, la loro proprietà, la loro “onnipotente libertà”[38]: una libertà irrelata, personale, privata e proprietaria, in una parola neoliberale; una libertà che ben si coniuga con l’autoritarismo perché nasce dalla richiesta allo Stato di potersi esercitare in forma di razzismo, di sessismo e di classismo contro i nemici interni. Intesa come estensione al massimo grado della sfera del privato – sottolinea ancora Brown –, la libertà finisce così per aggredire “i valori e le pratiche che sostengono i legami sociali  l’inclusione sociale, la cooperazione sociale e naturalmente l’uguaglianza sociale”[39]. Quella libertà si dà essenzialmente come “libertà autoritaria”: come “volontà di potenza desublimata che, paradossalmente, sollecita la crescita del potere statale”[40]. La promessa neo-populista di questo genere di libertà passa attraverso la sfibrante ripetizione retorica e mediatica di un “significante vuoto” che, come ha sostenuto Ernesto Laclau, si vuole capace di conferire unità contingente a domande popolari differenti tra loro[41]: un significante vuoto – come ad esempio lo stolido “¡Viva la libertad, carajo!” di Javier Milei – pronunciato da leader neo-autoritari (e perversamente libertari) con cui le moltitudini vengono spinte a identificarsi. È così che, in vari modi e alle più diverse latitudini, negli ultimi decenni sono stati costruiti i popoli del neo-populismo.

Bazzicalupo ha sottolineato, però, che i processi di identificazione del neo-populismo contemporaneo sono molto diversi da quelli attivati dai movimenti totalitari del XX secolo. Nelle masse dei totalitarismi “l’identificazione  collettiva  nel  leader  è  tanto maggiore  quanto  più  debole  è  il  processo  di  identificazione  del  singolo  e  la  corretta  formazione  edipica”[42]. Nelle società totalitarie quindi – per dirla con un lessico freudiano che verrà poi rielaborato dai francofortesi[43] – il forte investimento libidico e ideologico sulla figura del leader carismatico innescava un meccanismo di sublimazione idealizzante che prometteva di compensare l’“impotenza di masse frammentate ed atomistiche” ed edificava un solido Super-io individuale e sociale[44]. È in questo modo che – come scriverà Erich Fromm pensando alla Germania degli anni ’30 – le masse aderiranno irrazionalmente alla proposta di un nuovo autoritarismo politico capace di soddisfare fantasmaticamente “il bisogno di diminuire l’angoscia” e quello di “avere grandezza e potenza”[45]. Ed è così che per Fromm, oltre al generalizzarsi nella società della mancanza di pensiero critico e della “capacità di agire autonomamente”, anche nelle classi subalterne si diffonderà a macchia d’olio il sado-masochismo della personalità autoritaria[46]: quello di chi da una parte – sostituendo la figura del capo all’“ideale dell’Io” di cui parlava Freud in Psicologia delle masse e analisi dell’io[47] – gode nell’essere sottomesso a una potenza superiore in cui si identifica passivamente annullandosi e, dall’altra parte, gode nell’esercitare la propria carica distruttiva sul più debole, identificato nel nemico interno da soggiogare e da umiliare.

Nel neo-populismo contemporaneo viene meno proprio questa identificazione ideologica forte. Moltitudini composte da individui la cui forma di vita è plasmata dallo s-legame concorrenzial-consumistico del mercato – inteso come il principio ormai naturalizzato della normatività sociale – tendono ora ad identificarsi esteticamente e transitoriamente con leader sempre meno riconducibili alla figura del super-io freudiano e sempre più simili a “feticci autoritari pronti per l’uso”, come ha scritto efficacemente Marco Gatto[48]. Per questo “l’interiorizzazione dell’autorità e del dispotismo va […] pensata accanto all’edificazione costante, dovuta all’astrazione capitalistica, di una soggettività leggera e indebolita, disposta all’acquisizione transitoria di valori identitari”: disposta cioè a bere la proposta politica di leader populisti emersi come “degradazione feticistica di quello che un tempo era il capo”[49]. Contrariamente a quanto accadeva al tempo dei totalitarismi, poi, nel loro rapporto con i nuovi capi gli individui “mantengono il proprio narcisismo, il proprio immaginario di auto-realizzazione e auto-gestione”, la propria propensione a diventare imprenditori di se stessi: propensione che, pur frustrata, dopo decenni di egemonia neoliberale resta impressa nell’immaginario collettivo[50]. Gli individui smettono insomma di sublimare la loro libido. Al contrario, come nella desublimazione repressiva descritta da Marcuse, liberano pulsioni e desideri regolarmente sussunti all’ordine neoliberale e alla valorizzazione capitalistica, esercitando una libertà solo apparente dietro la cui maschera si nasconde il dominio dello status quo[51]. Sono questi stessi individui desublimanti che, attraverso continui processi imitativi, si agglomerano in forma di pubblico o di sciame intorno a capi provvisori che sembrano alla portata di tutti[52]: capi da consumare in forme di ritualità collettiva post-moderna; capi che, come la merce, con le loro fantasmagorie danno provvisoriamente senso all’identità e all’interiorità dei singoli seguaci, fornendo loro la sensazione di partecipare a una “comunità immaginata”[53]. Questi leader sono per così dire capi-influencer che conquistano credibilità proprio per il fatto di saper interpretare le dinamiche fluide di una “bubble democracy”; per il fatto di saper assecondare “le immagini standardizzate del pubblico” – immagini che emergono dalla rete, dai sondaggi, dalle bolle dei social network  –; e per il fatto altrettanto decisivo di sapere esibire “in modo marcato i desideri e i risentimenti di tutti”[54]. In una sorta di gioco mimetico superficiale tutto interno alle logiche dello spettacolo, “come in uno specchio”, tutti imitano tutti: le moltitudini imitano il leader e il leader imita le moltitudini[55]. Come quando su Facebook – ha osservato Christian Salmon –, Salvini “mangia come uno del popolo e, come uno del popolo, non teme di ingrassare”[56].

È all’interno di questo nesso politico-mimetico neo-populista che sembra prendere forma la nuova personalità autoritaria: la personalità bifronte, frammentata e impermanente di followers che da una parte interiorizzano il comando neoliberale a massimizzare il proprio capitale umano per diventare performanti imprenditori di se stessi, e dall’altra si fanno temporaneamente devoti a capi labili che promettono di superare il disordine religioso, socio-politico e morale. A questo disordine, denunciato con veemenza nelle loro narrazioni, i nuovi capi prêt-à-porter contrappongono immagini di sogno spettrali come Dio, patria, e famiglia (rivalutata, quest’ultima, come surrogato del Welfare[57]): “fantasmi sbiaditi” e introvabili, ombre del Novecento che però mirano a conferire una sia pur provvisoria unità mitico-immaginaria al popolo-pubblico a cui si rivolgono[58]. Magari per mobilitarlo oscenamente al sostegno delle guerre “giuste” per la democrazia, contro l’autocrazia o il terrorismo[59]. Questi valori provenienti dal “secolo belva” di cui parlava Mandel’štam nella sua poesia Vek moi (1923), questi “introvabili vocaboli del Novecento, oggi sono ridotti a una caricatura grottesca”, perché – come ha osservato Pezzella – la loro concezione dello spazio “è divenuta del tutto desueta”: è infatti “la nozione stessa di territorio che in fondo è ammuffita, se la confrontiamo con lo spazio digitale oggi percorso dai linguaggi (e dalle armi) nel tempo infinitesimale”[60]. Ma questo non toglie che, per compensare simbolicamente i soggetti o per invitarli alla morte, “si senta il bisogno di ricorrere a queste parole sostanzialmente vuote che sono come un’eco, un’ombra, un fantasma sbiadito del Novecento”[61]. A quel secolo belva “percorso da ideologie totalitarie e feroci, ma credute fino all’estremo” – il Novecento, appunto – ha fatto seguito il nostro “secolo ombra”, in cui “la distruzione ricorre ancora a quel vocabolario anche se ormai grottesco e desueto, in fondo posticcio”[62].

Nel secolo ombra, tutti diversi tra loro per latitudine e storia, i neo-populismi incarnano l’ultimo scenario politico della società dello spettacolo. Aggiornando le note analisi di Guy Debord, Pezzella scrive che i neo-populismi sono una “rappresentazione spettacolare di nuovo conio” che propone un’emancipazione soltanto immaginaria e non tocca mai “il dominio reale del capitale”, stringendo invece un’alleanza perversa con il capitalismo neoliberale in crisi e completando così la trasformazione della “democrazia in spettacolo”[63]. Lo attesta, da ultimo, la recente vittoria elettorale della coppia Trump/Musk: capi che, mentre sembrano siglare “un’alleanza organica tra post-democrazia autoritaria e futurismo digitale”, godono in modo ubuesco nel mettere in scena in modo spettacolare – a colpi di executive orders firmati a favore di telecamera – la distruzione sistematica di ciò che resta della democrazia rappresentativa e delle sue “correzioni redistributive novecentesche”[64]. Lo fanno in nome della libertà: una libertà-bordello ritenuta incompatibile con la stessa democrazia secondo la linea dettata da Peter Thiel, il “«grande vecchio» della fazione reazionaria di Silicon Valley”[65]. Ma questa libertà, com’è stato osservato, non è che il “libertarismo sovranista di quelli che possono, basato sulla schiavitù e la deportazione di quelli che non possono”[66]. Da una parte infatti i capi jouisseurs promettono ai loro followers di poter godere del ritorno americano alla grandezza imperiale, trainato da una tecno-oligarchia capitalista – neo-futurista e neo-conservatrice al contempo –, che si autorappresenta come élite capace di dominare il mondo; e da un’altra parte invitano gli stessi followers a godere di una caccia al nemico interno aizzata senza posa, sguinzagliando una variegata gamma di “passioni fasciste” – come ha sostenuto Judith Butler[67]. Riprendendo le note intuizioni di Franz Neumann sul governo politico dell’angoscia, si potrebbe sostenere che tutto ciò promuova un’identificazione cesaristica di tipo regressivo: una forma di identificazione in cui l’“angoscia reale” attivata nelle masse dai molteplici fattori che alimentano la policrisi contemporanea viene trasformata in “angoscia nevrotica persecutoria”[68]. Amplificando la spinta del neoliberalismo alla spoliticizzazione – al fatto cioè che l’homo oeconomicus non percepisce più la possibilità di trasformare il sistema politico ricorrendo all’azione collettiva –, i neo-populismi contemporanei sembrano puntare di nuovo a istituzionalizzare l’angoscia nevrotica persecutoria attraverso narrazioni paranoiche che fomentano il risentimento e la rabbia sociale contro persecutori per lo più immaginari. Gestendo l’angoscia nevrotica, i neo-populismi promettono cioè alle moltitudini che l’azione del capo e della sua cerchia garantirà il superamento dell’angoscia reale. Su queste basi cercano di saldare una nuova comunità, fusionale ed immaginata, che non prevede né conflitto né alternative.

 

 

  1. Autoritarismo neoliberale e autoritarismo neo-populista: verso una democrazia del capo?

 

Dentro questa trasformazione, e dentro la nostra policrisi, in Occidente come altrove hanno preso forma assetti politici in cui si combinano due forme di autoritarismo: un autoritarismo neoliberale e un autoritarismo neo-populista. Il primo è consustanziale al neoliberalismo stesso. A sostenerlo sono stati recentemente Pierre Dardot, Haud Guéguen, Christian Laval e Pierre Sauvêtre[69]. La loro tesi è che il neoliberalismo non diventa autoritario soltanto quando assume le forme di un regime politico liberticida, ma ha da sempre in sé una dimensione autoritaria. Che i suoi attori si chiamino Pinochet, Thatcher, Reagan, Trump, Bolsonaro, Berlusconi, Meloni, oppure Clinton, Blair, Schroeder, D’Alema, Prodi, Draghi, Merkel, Macron, in forme istituzionali diverse gli Stati neoliberalizzati assumono sempre una “decisione fondamentale in favore dell’economico”[70]. Puntano cioè a realizzare il progetto di una società di mercato e a costituzionalizzare assiomi capitalistici come l’intangibilità della proprietà privata, la libera formazione dei prezzi, un fisco generoso per i redditi da capitale, la stabilità monetaria, il pareggio di bilancio, la logica della concorrenza pura, etc. Per Dardot e colleghi, “autoritario” è quindi questo decisionismo neoliberale. Ne è un esempio quello che, sovradeterminato dai Trattati dell’Unione europea, negli ultimi decenni è stato condiviso da tutti gli Stati che la compongono[71]. E che, escludendo per principio la giustizia sociale dall’ambito dei possibili, punta a mettere la “costituzione economica” – come già la chiamava Franz Böhm – al riparo da ogni perniciosa interferenza democratica[72].

Per farlo non è necessario sopprimere il Parlamento. Basta sterilizzarlo anteponendo il momento della decisione al dibattito parlamentare – come accade da tempo con il massiccio ricorso a maxiemendamenti, decretazioni di urgenza, questioni di fiducia –, in modo tale che la politica economica sia esclusa di fatto “dalla deliberazione collettiva”[73]. In questo senso la democrazia neoliberale si rivela un ossimoro, perché non è interessata alla logica parlamentare o alla partecipazione dei cittadini e tanto meno all’autogoverno. Svuotata di sostanza sociale, essa è una democrazia “decidente” ed “esecutiva” che segue le indicazioni di un costituzionalismo di mercato. Oltre a ridefinire la costituzione materiale, insieme ai concreti rapporti di forza tra le classi, questo specifico genere di costituzionalismo neutralizza gli aspetti progettualmente emancipatori della Costituzione formale: come quelli contenuti nell’art. 3,2 della Costituzione italiana, che impone allo Stato di “rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”. Si tratta di un programma privo di senso per uno Stato neoliberalizzato che ha assunto il duplice compito di adattare le popolazioni agli imperativi della concorrenza e di imporre, su scala nazionale e territoriale, le norme globali dell’accumulazione capitalistica: libera circolazione dei capitali, tassazione minima di profitti e rendite, precarizzazione del mercato del lavoro, smantellamento dei servizi pubblici e del principio di solidarietà, adozione della logica del New public management, etc.[74]. Sul terreno dell’Ue, invece – osserva Dardot –, il decisionismo neoliberale e la dimensione autoritaria del neoliberalismo non hanno preso la via di uno Stato europeo. Il costituzionalismo di mercato è tenuto in forma da “un impilamento di norme comunitarie che prevalgono sul diritto degli Stati nazionali”[75]. E, come aveva preconizzato Hayek, la sovranità del diritto privato è garantita da un forte potere esercitato da più organi: il Consiglio, la Commissione, la Banca Centrale Europea, la Corte di giustizia. Questi poteri decidono al riparo dal controllo democratico e dal conflitto sociale. E, in modo complementare, “vegliano sul rispetto della sovranità sigillata nei trattati europei”[76]. Dimostrando così che “le società, oggi come ieri, sono organizzate nel gioco delle oligarchie” e che “non esiste nessun governo democratico”[77].

Su questo autoritarismo neoliberale – lo strano “non-morto” che è sopravvissuto alla lunga crisi economica, alla pandemia e che è ancora diversamente attivo dentro il nuovo “regime di guerra” – si innesta oggi, in molti paesi, un autoritarismo neo-populista[78]. Quest’ultimo condivide i lineamenti fondamentali del costituzionalismo di mercato, ma punta a fluidificarlo ulteriormente. Vi aggiunge infatti un supplemento culturale neo-conservatore e neo-nazionalista – declinato all’insegna della triade Dio, patria e famiglia – e interviene in senso neo-autoritario sulle istituzioni democratiche. È una tendenza globale, ma di questo autoritarismo neo-populista ibridato all’autoritarismo neoliberale il caso dell’attuale governo italiano rappresenta un interessante esempio in fase di realizzazione. Sul terreno economico, infatti, la destra al potere continua ad aderire pienamente all’assiomatica neoliberale operando nel solco delle compatibilità con l’Unione europea. La sua azione governamentale conferma cioè la logica delle privatizzazioni, dell’austerità previdenziale, del definanziamento della spesa sanitaria, dei tagli alla spesa sociale[79]: come nel caso di quel vero e proprio atto di guerra ai poveri che è stato l’abolizione del cosiddetto “reddito di cittadinanza”. Quest’ultimo, del resto, era già di per sé una misura di Workfare: un magro sussidio di disoccupazione fortemente condizionato[80]. Abolire il “reddito”, che riduceva “il bacino di disperati a cui attingere lavoro effimero e indecentemente sottopagato”, e affossare la legge sul salario minimo – come se “qualunque alternativa alle condizioni miserabili imposte dall’offerta” fosse “un attentato al sistema delle imprese” – ha permesso di sostenere a oltranza il potere datoriale di ricatto sul lavoro: un altro caposaldo dell’autoritarismo neoliberale, come ha osservato Marco Bascetta[81]. Sul terreno istituzionale, intanto, il governo italiano prepara un’azione neo-autoritaria e neo-populista che mira a inasprire i processi di esecutivizzazione del comando. In nome del totem della governabilità, il progetto di premierato elettivo formulato nel disegno di legge costituzionale Introduzione dell’elezione diretta del Presidente del Consiglio dei Ministri e razionalizzazione del rapporto di fiducia, licenziato il 3 novembre 2023 dal Consiglio dei ministri, rischia infatti di dare il colpo di grazia all’“essenza del regime parlamentare”, ossia alla già residua “libertà del Parlamento di indirizzare la politica del paese”[82].

L’introduzione del premierato sarebbe l’esito di decenni di personalizzazione e di verticalizzazione del potere, oltre che delle prassi e degli abusi “che hanno invertito il rapporto di responsabilità politica” portando il parlamento ad assumere “un ruolo ratificatore o consultivo rispetto al Governo”[83]. Istituzionalizzando un premierato di fatto già da tempo vigente, il premierato elettivo – che secondo Luigi Ferrajoli segna il “punto d’arrivo di un lungo processo, avviatosi con lo smantellamento dei partiti e con i mutamenti delle forme della comunicazione politica, proseguito con l’affermazione dei sistemi elettorali maggioritari e con il crollo del ruolo del parlamento” – blinderebbe la figura del Presidente del Consiglio, conferendogli tutta “la forza simbolica e carismatica che deriva da una elezione diretta”[84]. Da una democrazia parlamentare si scivolerebbe così verso una democrazia plebiscitaria: una “democrazia di investitura e di affidamento” che ridefinisce gli elettori come tifosi impegnati in un’“intensa momentanea politicizzazione mediatica”[85]. Ad una campagna elettorale iperpolitica, dopo l’elezione del premier forte seguirebbe una spoliticizzazione amplificata in cui la politica sarebbe ridotta a recita ininterrotta del capo. Acquisirebbero così un nuovo significato “le osservazioni di Rousseau sul popolo che esaurisce la sua libertà il giorno del voto e quindi è schiavo per cinque anni”[86]. Una moltitudine di cittadini ridotti definitivamente a spettatori delegherebbe il proprio potere a un capo (e alla sua maggioranza), poi per cinque anni non avrebbe più voce. Il nuovo Parlamento non potrebbe dargliela, quella voce, perché dopo avere votato automaticamente la fiducia al premier resterebbe sotto la dittatura di una maggioranza che – avendo ricevuto un premio del 55% per la vittoria elettorale, quale che sia la percentuale di voti conseguita – avrebbe campo libero e controllo su tutte le istituzioni di garanzia. La maggioranza controllerebbe “buona parte del Consiglio superiore della magistratura e una discreta parte della Corte costituzionale e, di fatto, la presidenza Repubblica, perché al sesto scrutinio – ha sostenuto Galli – il capo dello Stato si fa con la maggioranza semplice”[87]. Non potendo più sciogliere le camere, il Presidente perderebbe poi molti dei suoi poteri, oltre che la sua funzione di garante della Costituzione, e verrebbe relegato a un ruolo notarile.

L’autonomia del Parlamento davanti al governo sarebbe nulla e le minoranze non avrebbero alcun peso. Il Parlamento sarebbe cioè “ridotto all’impotenza quanto un consiglio comunale” davanti al suo sindaco o quanto un’assemblea regionale davanti al suo “governatore”[88]. Cadrebbe così definitivamente l’illusione democratico-rappresentativa, già da tempo gravemente deteriorata, per cui il demos detiene il kratos tramite l’intermediazione dei partiti e dei parlamentari[89]. L’“espressione immediata della volontà del popolo”, manifestata nell’elezione diretta del premier, sarebbe infatti repentinamente convertita “nella parola solitaria di un vertice legittimato dal popolo”[90]. La scelta del leader decisore e della sua maggioranza non rafforzerebbe affatto la sovranità popolare democratica – il kratos del demos –, ma la depotenzierebbe. Quello che sceglie il capo infatti non è un popolo democratico – il popolo dei rappresentati la cui sovranità vive nella mediazione dei rappresentanti (con i quali i primi manterrebbero un rapporto vitale attraverso l’intermediazione dei partiti)  –, ma il popolo del neo-populismo autoritario che al capo si asserve. Questo genere di autoritarismo neo-populista è ben sintetizzato da un passaggio del discorso del 10 novembre 2023 con cui – raccogliendo l’eredità antipartitocratica, anti-parlamentare, plebiscitaria e decisionista del vecchio Movimento Sociale Italiano – la Presidente del Consiglio ha lanciato sui social (in una rubrica intitolata Appunti di Giorgia) la campagna per il premierato: “volete contare e decidere o stare a guardare mentre i partiti decidono per voi? Questa è la domanda che faremo se sarà necessario e quando sarà necessario”.

Con il premierato la democrazia deliberante verrebbe archiviata e la lunga marcia neoliberale della “democrazia decidente” sfocerebbe in una “democrazia del capo” in cui “la stabilità – perseguita attraverso l’elezione diretta del premier, la riduzione artificiale del pluralismo e forzature che disequilibrano gli organi costituzionali – prende possesso della stessa democrazia”, surrogandola e trasformandola in qualcosa di simile a un’“autocrazia elettiva”[91]. O a quello che Gramsci chiamava “cesarismo regressivo”[92]: un regime in cui la sovranità popolare si riduce “ad acclamazione del capo, dell’«uomo di fiducia di tutto il popolo» – per dirla con Schmitt –, al quale per l’appunto ci si affida come ad un pastore foucaultiano che cura e sorveglia”[93]. Questo genere di presidenzialismo neo-populista – ha sostenuto Ferrajoli – è la forma di governo più idonea “alla governabilità della società richiesta dai mercati” [94]. Da decenni ormai – almeno dal Rapporto sulla governabilità delle democrazie alla Commissione trilaterale del 1975 – la temporalità economica del mercato globale dichiara superata la lentezza del processo decisionale democratico, richiedendo una sempre maggiore velocità dell’azione di governo[95]. Concentrando e verticalizzando al massimo grado la capacità decisionale, il premierato elettivo promette di soddisfare la richiesta sincronizzando al meglio i tempi della politica a quelli del mercato, della finanza globale e del nuovo regime di guerra. In questa prospettiva la democrazia rappresentativa rischia di collassare definitivamente “sotto i colpi del martello della sincronizzazione”[96]. In questo modo – non solo in Italia ma un po’ ovunque – l’autoritarismo neo-populista si innesta sull’autoritarismo strutturale del neoliberalismo, producendo una forma di governo capace di prendere rapidamente decisioni adeguate al comando delle potenze economiche e geopolitiche dominanti. Liberato dai lacci e lacciuoli del parlamentarismo, l’esecutivo tende così a diventare un “esecutore”[97]. Neo-populismo – come ha scritto ormai qualche anno fa Jacques Rancière – è quindi il nome che “maschera, e allo stesso tempo rivela, il grande desiderio dell’oligarchia: governare senza popolo, cioè senza divisione del popolo, governare senza la politica[98].

In conclusione, come ha scritto Augusto Illuminati, non è necessario credere che il regime parlamentare sia “la forma definitiva e compiuta della democrazia” per sostenere che il progetto di premierato innesca una deriva neo-autoritaria “ben rispondente alle tendenze organiche del neoliberalismo”: una deriva che, combinata con quella vera e propria secessione dei ricchi che è il disegno di legge sull’autonomia regionale differenziata – per il momento bloccato dalla Corte costituzionale –, porterebbe a compimento il progetto originario della destra a tre facce nata in Italia nel 1994[99]. Questo progetto non si propone solo di archiviare la sostanza della democrazia, smantellandone definitivamente la componente sociale già ampiamente minata da decenni di politiche neoliberali. Si propone anche di mutare la forma stessa della democrazia. Facendo letteralmente a pezzi l’ordinamento della Repubblica definito dalla Costituzione antifascista nata dalla Resistenza, quel progetto mira infatti a edificare in forme stabili una postdemocrazia autoritaria.

 

Note:

[1] D. Harvey, L’enigma del capitale e il prezzo della sua sopravvivenza, Feltrinelli, Milano, 2010, p. 21. Anche se il capitalismo neoliberale si è affermato con Margaret Thatcher in Gran Bretagna nel 1979 e con Ronald Reagan negli Usa nel 1980, il suo laboratorio criminale è stato il Cile della dittatura militare nata dal golpe di Pinochet nel 1973. Qui, come hanno scritto Pierre Dardot e Christian Laval ha preso forma “la prima contro-rivoluzione neoliberale”. E qui a uno Stato forte venne assegnato il compito di rafforzare “il potere disciplinare dei mercati”, in modo da operare “una profonda trasformazione di tute le relazioni sociali” e da spoliticizzare l’economia affossando il nemico comunista e marxista. P. Dardot et alii, Le choix de la guerre civile, Une autre histoire du néolibéralisme, Lux, Montreal, 2021, p. 49. Cfr. anche P. Dardot, Mémoire du futur. Chili 2019-2022, Lux, Montréal, 2023, su cui M. Ciolli, Il conservatorismo neoliberale cileno fra rivolte e restaurazione, in “Teoria politica”, 13, 2023, pp. 333-340; G. Chamayou, La société ingouvernable. Une généalogie du libéralisme autoritaire, La fabrique, Paris, 2018, pp. 215-225; T. Moulian, Una rivoluzione capitalista. Il Cile, primo laboratorio mondiale del neoliberismo, Mimesis, Milano, 2003.

[2] L. Gallino, La lotta di classe dopo la lotta di classe, Laterza, Roma-Bari, 2012. Sul punto cfr. anche M. Revelli, La lotta di classe esiste e l’hanno vinta i ricchi. Vero!, Laterza, Roma-Bari, 2014. È sempre utile ricordare le parole dell’intervista che Warren Buffet rilasciò il 26 novembre 2026 al New York Times: “certo che c’è la guerra di classe, ma è la mia classe, la classe ricca che la sta conducendo, e noi stiamo vincendo”. Cinque anni dopo Buffet ribadì che “negli ultimi venti anni è stata combattuta una guerra di classe e la mia classe l’ha vinta”. G. Sargent,“There’s been class warfare for the last 20 years, and my class has won”, in “The Washington Post”, 3 marzo 2011, on line. Dalle dichiarazioni di Buffet prende le mosse l’importante analisi del neoliberalismo americano di M. D’Eramo, Dominio. La guerra invisibile dei potenti contro i sudditi, Feltrinelli, Milano, 2020, pp. 10-11.

[3] P. Dardot, C. Laval, La nuova ragione del mondo. Critica della razionalità neoliberista (2009), Deriveapprodi, Roma, 2021.

[4] F. Chicchi, A. Simone, La società della prestazione, Ediesse, Roma, 2024, p. 20.

[5] Ivi, p. 35.

[6] Secondo l’intuizione di Michel Foucault per cui il neoliberalismo fa “del mercato, della concorrenza e dunque dell’impresa, quella che si potrebbe chiamare la potenza che dà forma alla società”. M. Foucault, Nascita della Biopolitica. Corso al Collège de France 1978-1979, Feltrinelli, Milano, 2005, p. 131.

[7] L. Bazzicalupo, The Ironic Turn of Liberalism: The face of Authoritarian Freedom, in “Soft Power”, 21, 2024, p. 63.

[8] Ivi, p. 64.

[9] G. Gerstle, Ascesa e declino dell’ordine neoliberale. L’America e il mondo nell’era del libero mercato, Vicenza, Neri Pozza, 2025, p. 104.

[10] Ivi, p. 13.

[11] M. De Carolis, Il rovescio della libertà. Tramonto del neoliberalismo e disagio della civiltà, Quodlibet,  Macerata, 2017, p. 205.

[12] R. Esposito, La morte annunciata (e mai avvenuta) del neoliberismo, in “La Repubblica” 26 giugno 2017.

[13] W. Brown, Undoing the Demos: Neoliberalism’s Stealth Revolution, New York, Zone Books, 2015.

[14] I. Dominijanni, Fare e disfare il popolo. Un’ipotesi sul caso italiano, in “Teoria politica”, 7, 2017, p. 88; W. Brown, Undoing the Demos: Neoliberalism’s Stealth Revolution, Zone Books, New York, 2015.

[15] P. Dardot, C. Laval, La nuova ragione del mondo, cit., pp. 445 e ss.

[16] I. Dominijanni, Fare e disfare il popolo, cit., p. 88.

[17] W. Brown, Undoing the Demos, cit., p. 35.

[18] R. Ciccarelli, Una vita liberata. Oltre l’apocalisse capitalista, Manifestolibri, Roma, 2022, p. 133.

[19] M. Ricciardi, La fine dell’ordine democratico. Il programma neoliberale e la disciplina dell’azione collettiva, in R. Baritono, M. Ricciardi (a cura di), Strategie dell’ordine: categorie, fratture, soggetti, in “Quaderni di Scienza & Politica”, 8, 2020, p. 286.

[20]  Ibidem.

[21] R. Cappuccilli, Wendy Brown, una democrazia in pessimo stato, in “Connessioni precarie”, 7 gennaio 2020, on line.

[22] Sul punto cfr. M. Revelli, La politica senza politica. Perché la crisi ha fatto entrare il populismo nelle nostre vite, Einaudi, Torino, 2019.

[23] M. Pezzella, Dal Carnevale alla Quaresima, in “Il Portolano”, n. 72/73, 2013, pp. 12-15.

[24] Sulla prima categoria, cfr. N. Fraser, Il vecchio muore e il nuovo non può nascere. Dal neoliberalismo progressista a Trump e oltre, Ombre Corte, Verona, 2019; sulla seconda, cfr. W. Davies, The New Neoliberalism, in “New Left Review”, 101, 2016, pp. 121-134.

[25] I. Dominijanni, L’ultima maschera del neoliberismo, in “Jacobin Italia”, 8, 2020, p. 32.

[26] Ibidem.

[27] W. Brown, In the Ruins of Neoliberalism. The Rise of Antidemocratic Politics in the West, Columbia University Press, New York, 2019.

[28] I. Dominijanni, La trappola della sovranità, in “Parolechiave”, 2020, 3, p. 24.

[29] Id., L’ultima maschera del neoliberalismo, cit., p. 32. Per il conio della locuzione “momento populista”, cfr. C. Mouffe, El momento populista, in “El país”, 10 giugno 2016.

[30] R. Cappuccilli, Wendy Brown, una democrazia in pessimo stato, cit.

[31] I. Dominijanni, La trappola della sovranità, cit., p. 24.

[32] S. Žižek, In difesa delle cause perse, Ponte alle grazie, Milano, 2009, pp. 329 e ss.

[33] C. Galli, Democrazia senza popolo, Feltrinelli, Milano, 2017, p. 109. Per un’applicazione di questa tesi all’attuale governo italiano cfr. Id., La destra al potere. Rischi per la democrazia, Raffaello Cortina, Milano, 2024.

[34] D. Gentili, Dare un nome al desiderio, in S. Baranzoni et alii, I mondi del Professor Challenger. Politiche, tecno-logiche, ambienti, Orthotes, Napoli, 2025, p. 18.

[35] Žižek utilizza il concetto a più riprese. Cfr., S. Žižek, La visione di parallasse, Il Nuovo Melangolo, Genova, 2013, pp. 537-540; Id., Il godimento come fattore politico, Raffaello Cortina Editore, Milano 2001, pp. 69 e 71; Id., Contro i diritti umani, Il Saggiatore, Milano 2005, pp. 44-45.

[36] S. Visentin, Cosa si può imparare dal populismo, in “Quaderni di rassegna sindacale”, 2014, n. 2, p. 203.

[37] Ibidem e Id., “It takes a little while”. A chi parla il popolo?, in F. del Lucchese, V. Morfino, T. Rispoli (a cura di), Ricominciare ogni volta di nuovo. Scritti in onore di Augusto Illuminati, Manifestolibri, Roma, 2023, pp. 85-86.

[38] I. Dominijanni, L’ultima maschera del neoliberalismo, cit., p. 24.

[39] W. Brown, Neoliberalism’s Frankenstein: Authoritarian Freedom in Twenty-First Century “Democracies”, in “Critical Times”, 1, 2018, p. 66.

[40] R. Sau, Variazioni neoliberali del risentimento, in “Pandemos”, 1, 2023, p. 13.

[41] E. Laclau, La ragione populista, Laterza, Roma-Bari, 2005, pp. 122-148.

[42] L. Bazzicalupo, [Come in uno specchio]. Populismo e governamentalità neoliberale, in “Cambio”, 8, 2014, p. 26.

[43] S. Freud, Psicologia delle masse e analisi dell’io (1921), Bollati Boringhieri, Torino, 1975; T.W. Adorno, E. Fernel-Brunswik, D. Levinson, R. Nevitt Sanford, The Authoritarian Personality, Verso, London-New York, 2019.

[44] L. Bazzicalupo, [Come in uno specchio], cit., p. 28.

[45] Cfr. E. Fromm, Masochismo e autorità (1936), in E. Donaggio (a cura di), La Scuola di Francoforte, Einaudi, Torino, 2005, p. 103, già pubblicato con il titolo Il carattere autoritario-masochistico, in M. Horkheimer, E. Fromm, H. Marcuse e altri, Studi sull’autorità e la famiglia, Utet, Torino, 1974, pp. 104-28.

[46] E. Fromm, Masochismo e autorità, cit., p. 96. Sul punto, per un inquadramento generale, cfr. L. Scuccimarra, Assoggettamento, repressione, emancipazione. Alle origini della psico-politica francofortese, in “Filosofia politica”, 1, 2022, pp. 49-68 e G. Fazio, L’interesse per l’emancipazione. Le traiettorie della teoria critica della Scuola di Francoforte, in “Scienza & Politica”, 67, 2022, p. 59.

[47] S. Freud, Psicologia delle masse e analisi dell’io, cit., p. 63. Per Freud la massa è notoriamente “costituita da un certo numero di individui che hanno messo un unico medesimo oggetto al posto del loro ideale dell’Io e che pertanto si sono identificati gli uni agli altri nel loro Io” (ibidem). Sergio Benvenuto ne deduce che quella concepita da Freud è una massa essenzialmente fascista, in cui a fare da collante è l’“alienazione parallela di ciascuno”, ossia l’alienazione dell’ideale dell’Io di tutta una moltitudine in un solo capo con cui il rapporto è di verticalità, asimmetria, dipendenza, repressione. S. Benvenuto, La massa e gli scarti: Da Freud a Breivik, in “L’inconscio. Rivista Italiana di Filosofia e Psicoanalisi”, 9, 2020, pp. 179-202. Sul punto cfr. anche  D. Palano, Il segreto del potere. Alla ricerca di un’ontologia del politico, Rubbettino, Soveria Mannelli, 2018, pp. 117-159.

[48] M. Gatto, Masse postmoderne. Considerazioni su feticismo e dispotismo nel tempo dell’estetizzazione amministrata, in “Consecutio Rerum”,  11, 2022, p. 27, ora ripreso in Id., L’egemonia della superficie. Per una critica del postmoderno avanzato, Castelvecchi, Roma, 2024, pp. 99-111.

[49] Ibidem.

[50] L. Bazzicalupo, [Come in uno specchio], cit., p. 33.

[51] Cfr. W. Brown, In the Ruins of Neoliberalism, cit., pp. 165-170.

[52] Sul genere di connettività sperimentato dallo sciame, inteso come corpo collettivo a cui partecipano organismi viventi che interiorizzano automatismi capaci di guidarne i comportamenti nella loro totale inconsapevolezza o nella loro solo parziale consapevolezza, cfr.  F. Berardi Bifo, Sciame/interruzione, in A. Simoncini (a cura di), Una rivoluzione dall’alto. A partire dalla crisi globale, Milano, Mimesis, 2012, pp. 125-162; Id., E. La congiunzione, Nero, Roma, 2021, pp. 177-202; Id., Out of control. Genealogia della rivoluzione reazionaria trumpista: il Caos e l’’Automa, in “Il Disertore”, 26 gennaio 2025, on line. Per il conio del concetto di sciame, cfr. B-C. Han, Nello sciame. Visioni del digitale, Nottetempo, Milano, 2015.

[53] B. Anderson, Comunità immaginate (1983), Manifestolibri, Roma, 1991.

[54] L. Bazzicalupo, [Come in uno specchio], cit., p. 33. Per il concetto di bubble democracy, cfr, D. Palano, Bubble Democracy. La fine del pubblico e la nuova polarizzazione, Morcelliana, Brescia, 2020.

[55] Ivi, p. 25.

[56] Christian Salmon: “Le politiquement incorrect est le nouveau style dominant, in “L’echo”,  21 marzo 2025. Cfr. anche B. Terracciano, Il sovranismo è servito: la retorica salviniana del buono made in Italy, “E/C”, 27, 2019, pp. 162-174.

[57] Cfr. M. Cooper, Family Values. Between Neoliberalism and the New Social Conservatorism, Zone Books, New, York, 2017.

[58] M. Pezzella, Cronache dal “secolo ombra”, in “Terzo giornale”, 12 febbraio 2024, on line.

[59] Per una ricostruzione del concetto di guerra giusta, cfr. C. Galli, Guerra, politica, nemico, in Id., Forme della critica. Saggi di filosofia politica, Il Mulino, Bologna, 2020, pp. 183-255; Id., Passato e presente della guerra nella riflessione politica, in “Ars Interpretandi”, 1, 2023, pp. 11-26 e A. Simoncini, Sulla “guerra giusta”. Note genealogiche, in “Altraparola”, 8, 2022, pp. 13-32.

Sul “ritorno” della guerra giusta nel tempo presente, in un orizzonte di crisi dei concetti politici moderni, cfr. almeno A. Colombo, La guerra in Ucraina e il trionfo contemporaneo della guerra giusta, in “La Fionda”, 2, 2022, pp. 28-40 e M. Tomba, Rinascita della guerra giusta? Giustizia e “New World Order”, in G. Bonaiuti e A. Simoncini (a cura di), La catastrofe e il parassita. Scenari della transizione globale, Mimesis, Milano, 2004, pp. 41-68.

[60] M. Pezzella, Cronache dal “secolo ombra”, cit.

[61] Ibidem.

[62] Ibidem. Cfr. anche Id., Cronache dal “secolo ombra” (2). La pre-guerra, in “Terzo giornale”, 3 Giugno 2024, on line. Pezzella rimanda alla lettura della poesia di Mandel’štam che si trova in A. Badiou, Il secolo, Feltrinelli, Milano, pp. 28 e ss. Sul punto cfr. anche G. Agamben, Nudità, Nottetempo, Milano, 2009, pp. 21 e ss.

[63] M. Pezzella, Critica della ragion populista, in S. Cingari, A. Simoncini, Lessico postdemocratico, Perugia University Press, Perugia, 2016, pp. 187-192. Il riferimento è ovviamente a G. Debord, La società dello spettacolo (1967), Baldini & Castoldi, Milano, 2008 e a Id., Commentari sulla società dello Spettacolo (1988), in ibidem. Nella stessa direzione, cfr. A. Tricomi, Credo in un solo Dio, Capitale onnipotente, in Id., Macerie borghesi. Genealogie letterarie del presente, Rogas, Roma, pp. 216-240. Sull’alleanza perversa tra neoliberalismo e neo-populismi cfr. L. Ferrajoli, L’alleanza perversa tra sovranismi e liberismo, in “Costituzionalismo.it”, 23 aprile 2019, on line.

[64] I. Dominijanni, Stati Uniti atto terzo, con Musk che incombe, in “Internazionale”, 5 novembre 2024, on line e Id., Totalitarismo democratico. Il testamento politico di Mario Tronti, in “Il Tascabile”, 31 marzo 2025, on line. Sull’ubuesco e sul grottesco nella meccanica del potere, cfr. il seminale M. Foucault, Gli anormali, Corso al Collège de France (1974-1975), Feltrinelli, Milano, 2009, pp. 21-23, sulla scia di A, Jarry, Ubu roi, Paris 1896. Sul punto cfr. A. Cavalletti, Lessico Foucault. Ubuesco, in “Doppiozero”, 18 giugno 2024, on line.

[65] L. Celada, L’utile messia degli oligarchi tecnologici e reazionari della Silicon Valley, in “Il manifesto”, 22 gennaio 2025 e Id., American Fascism: lettera dal golpe statunitense, in “Dinamo Press”, 2 marzo 2025, on line.

[66] I. Dominijanni, Totalitarismo democratico, cit.

[67] J. Butler, Fascist Passions, Conferenza all’Università di Bologna, in https://www.youtube.com/watch?v=ivbxsaWsYYo, 7 maggio 2024; Id., Alle passioni fasciste del tycoon opponiamo le nostre, in “Il manifesto”, 8 febbraio 2025; Id., This is wrong, in “London Review of Books”, 3 aprile 2025, on line.

[68] F. Neumann, Angoscia e politica (1954), in Id., Lo Stato democratico e lo Stato autoritario, Il Mulino, Bologna, 1984, pp. 123-127, su cui cfr. G. Brindisi, Dal liberalismo autoritario al fascismo. Sulla critica di Franz Neumann a Carl Schmitt, in S. Baranzoni et alii, I mondi del Professor Challenger, cit., pp. 47-54. Per la riattivazione del concetto di “policrisi” nel tempo presente, cfr. A. Tooze, Welcome to the world of the polycrisis, in “Financial Times”, 28 ottobre 2022.

[69] C. Laval, H. Guéguen, P. Dardot, P. Sauvêtre, Le choix de la guerre civile, cit.

[70] Prendo a prestito questa locuzione da M. Ricciardi, Tempo, ordine, potere, cit., pp. 11 e 29. Per il concetto di “decisione fondamentale” cfr. però C. Schmitt, Dottrina della costituzione, Giuffrè, Milano, 1984, p. 48. Al di là dell’influenza che questo concetto ebbe sull’ordoliberalismo tedesco, Ricciardi sottolinea opportunamente che “la distanza incolmabile tra il programma neoliberale e la dottrina  schmittiana  è  evidentemente  la  dipendenza  del  diritto  dall’ordine  economico  che esso prevede” (ivi, p. 15). Che esista però una chiara ispirazione schmittiana nelle teorie ordoliberali, è sostenuto in modo convincente da P. Dardot et alii, Le choix de la guerre civile, cit., pp. 73-97, 114 e 278 e ss. Sui punti di convergenza e divergenza tra Schmitt e l’ordoliberalismo tedesco, cfr. anche  C. Galli, Carl Schmitt: politica ed economia nella crisi di Weimar, in “Filosofia politica, 1, 2019, pp. 45-54; O. Malatesta, L’ordoliberalismo delle origini e la crisi della Repubblica di Weimar: Walter Eucken su Sombart, Schumpeter e Schmitt, in ibidem, pp. 67-82; L. Mesini, Politica ed economia in Schmitt e negli ordoliberali, in ibidem, pp. 55-66 e Id., Stato forte ed economia ordinata, Il Mulino, Bologna, pp. 65-66.

[71] P. Dardot, Néolibéralisme et autoritarisme, in “AOC”, 4 marzo 2021, on line. Per un approfondimento sul decisionismo neoliberale, cfr. A. Simoncini, Decisionismo neoliberale e democrazia del comune nella riflessione di Pierre Dardot e Christian Laval, in “Itinerari di ricerca storica”, 1, 2023, pp. 81-94. Sul modo in cui il concetto di costituzione economica si rideclina tra ordoliberalismo e Unione europea, cfr. P. Dardot, C. Laval, Ce cauchemar qui n’en finit pas. Comment le néolibéralisme défait la démocratie, Paris, La Découverte, 2016, pp. 59-70; P. Dardot, Souveraineté de l’État et constitutionnalisme de marché, in T. Boccon-Gibod, E. Fabri, M. Kaluszynski, O. Tourneux (a cura di), Souveraineté et néolibéralisme, Lormont, Le Bord de l’eau, 2023, pp. 16-30 e, con un’impostazione diversa, A. Zanini, Diritto e potere privato. Franz Böhm, in “Filosofia politica”, 1, 2019, pp. 83-102; Id., Ordoliberalismo. Costituzione e critica dei concetti (1933-1973), Bologna, Il Mulino, 2022, le cui conclusioni sono ora aggiornate in Id., Radici concettuali di un’aporetica “sovranità dell’economico” nell’Europa contemporanea. Ordoliberalismo come “luogo comune”, in “Polemos”, 2, 2023, pp. 29-48.

[72] F. Böhm, Die Ordnung der Wirtschaft als geschichtliche Aufgabe und rechtsschöpferische Leistung, Stuttgart und Berlin, Kohlhammer, 1937, pp. 54 e 57, su cui O. Malatesta, Sul concetto di Wirtschaftsverfassung in Franz Böhm. La Costituzione economica ordoliberale da Weimar all’Unione europea, in A. Cozzolino, O. Malatesta, L. Sica (a cura di), Questione Europa. Crisi dell’Unione e trasformazioni dello Stato, Napoli, Istituto Italiano per gli Studi Filosofici, 2021, pp. 68-69.

[73] P. Dardot, Néolibéralisme et autoritarisme, cit.

[74] P. Dardot, C. Laval, Dominer. Enquête sur la souveraineté de l’État en Occident, Paris, La Découverte, 2020, p. 671.

[75] P. Dardot, Néolibéralisme et autoritarisme, cit.

[76] Ibidem.

[77] J. Rancière, L’odio per la democrazia, Cronopio, Napoli, 2007, p. 64. Per Rancière il governo democratico rappresentativo, che il filosofo preferisce chiamare “sistema parlamentare”, “è una forma mista […] di funzionamento dello Stato, fondata inizialmente sul privilegio delle élites naturali e sviata via via dalla sua funzione attraverso le lotte democratiche” (p. 66).

[78] Sul neoliberalismo come vivace zombie, cfr. C. Crouch, The strange nondeath of neoliberalism, Polity Press, Cambridge, 2010; Q. Slobodian, Argentine: Javier Milei ou le retour du néolibéralisme zombie, in “L’Obs”, 21 novembre 2023, on line; P. Krugman, Discutere con gli zombie, Garzanti, Milano, 2008. Sul regime di guerra contemporaneo, cfr. M. Hardt, S. Mezzadra, A Global War Regime, in “New Left Review”, 9 maggio 2024, on line.

[79] Cfr. Coniare rivolta, Il pacco del Governo Meloni, in “coniarerivolta.org”, 23 dicembre 2023, on line e A. Fumagalli, Il vero volto della politica economica del governo Meloni, in “Effimera”, 12 dicembre, on line.

[80] Cfr. R. Ciccarelli, Il “reddito di cittadinanza” in Italia: un caso di “rivoluzione passiva”, in “Economia e società regionale”, 2, 2022, pp. 23-36 e Id., L’odio dei poveri, Firenze, Ponte alle grazie, 2023.

[81] M. Bascetta  L’invenzione dei “lazzaroni” e l’apologia del lavoro servile. Cosa c’è dietro la lotta contro il “reddito”, in “Il manifesto”, 4 novembre 2023.

[82] C. Galli, Premierato, la libertà negata del Parlamento, in “La Repubblica”, 21 novembre 2023.

[83] A. Algostino Dietro l’angolo, un premierato torbido, in “Volere la luna”, 7 novembre 2023, on line.

[84] Ibidem; L. Ferrajoli, Presidenzialismo italiano e mistificazioni ideologiche, in G. Azzariti e M. della Morte (a cura di), Il Führerprinzip. La scelta del Capo, Editoriale Scientifica, Napoli, 2024, p. 36.

[85] C. Galli, La Destra al potere. Rischi per la democrazia?, Raffaello Cortina, Milano, 2024, pp. 119 e 115.

[86] A. Algostino Dietro l’angolo, un premierato torbido, cit.

[87] “Se pensate poi che il premier controlla i servizi segreti – aggiunge Galli –, beh avete una forma di governo in cui tutti i poteri sono concentrati in una persona”. M. Bettazzi, Premierato, il politologo Carlo Galli: “E’ un regime assoluto che non esiste in nessuna parte del mondo”, in “La repubblica”, 14 giugno 2024.

[88] C. Galli, La Destra al potere, cit., p. 117.

[89] Per un approfondimento, cfr. A. Simoncini, Democrazia senza futuro? Scenari dall’interregno postdemocratico, Mimesis, Milano, 2018, pp. 48-62.

[90] C. Galli, Premierato, la libertà negata del Parlamento, cit.

[91] A. Algostino, Dietro l’angolo, un premierato torbido, cit. Sul concetto di “autocrazia elettiva”, cfr. M. Bovero, Autocrazia elettiva, in “Costituzionalismo.it”, 2, 2015, on line. Sulla e contro la “democrazia del capo”, cfr. G. Azzariti, Forme di governo e complessità della democrazia, in G. Azzariti e M. della Morte (a cura di), Il Führerprinzip, cit., pp. 1-9. Della “necessità di passare dalla «democrazia interloquente» alla «democrazia decidente» aveva espressamente parlato Giorgia Meloni il 25 ottobre 2022 nel suo discorso di insediamento alla Camera dei Deputati (scaricabile al sito https://comunicazione.camera.it/). Lo stesso aveva fatto a più riprese Matteo Renzi durante la campagna per il referendum costituzionale del 2016. Cfr. C. Galli, La “nuova democrazia” di Renzi e le ragioni del no, in “Ragioni politiche”, 19 maggio 2016, on line.

[92] A. Gramsci, Quaderni del carcere, v. II (1930-1933), Einaudi, Torino, 2014, Q. 9, par. 133, pp. 1194-1195.

[93] A. Algostino, Seconda Repubblica, in “Questione giustizia”, 19 novembre 2024, on line; C. Schmitt, Dottrina della costituzione, cit., p. 459.

[94] L. Ferrajoli, Presidenzialismo italiano e mistificazioni ideologiche, cit., p. 36.

[95] M. J. Crozier, S. P. Huntington, J. Watanuki (1975), La crisi della democrazia. Rapporto sulla governabilità delle democrazie alla Commissione trilaterale, Franco Angeli, Milano, 1977.

[96] M.Tomba,  Scontro fra temporalità: capitale, democrazia e piazze, in “Tysm”, 4, 2013, on line.

[97] M. Pezzella, No, in “Il Ponte”, 30 settembre 2016, on line.

[98] J. Rancière, L’odio per la democrazia, cit., p. 97. Sul punto cfr. A. Illuminati, Governare senza popolo. Odio vs populismo, in “Opera viva”,  25 Luglio 2016, on line.

[99] A. Illuminati, Il premierato nel regime di guerra, in “Centroriformastato.it”, 14 dicembre 2023, on line. Sul progetto di autonomia differenziata, che non è possibile analizzare in questa sede, cfr. G. Viesti, Contro la secessione dei ricchi. Autonomie regionali e unità nazionale, Laterza, Roma-Bari, 2023; C. De Fiores, Autonomia differenziata e forma di governo, in “Democrazia e diritto”, 1, 2023, pp. 3-79; G. Azzariti, Il regionalismo da realizzare e quello da impedire, in “Micromega”, 1, 2024, pp. 147-154.