NECESSITÀ DELLA PSICANALISI (estratti) – di Alberto Zino

NECESSITÀ DELLA PSICANALISI (estratti) – di Alberto Zino

21 Giugno 2020 Off di Francesco Biagi

[Presentiamo estratti del libro di Alberto Zino, Necessità della psicanalisi, Ets, Pisa, 2019. Al termine del testo una nota biografica dell’autore. L’immagine in intestazione è di Ruggero Savinio.]

 

di Alberto Zino

 

 

[…] il sistema industriale è la società del consumo di umani.

Questa proposizione non è idiota, e infatti risulta impossibile

distinguerci, in quanto soggetti, dai prodotti. In altri termini,

ci utilizzano, ci mangiano, ci digeriscono[1].

 

 

  1. Divenire dei “prodotti” ha ogni volta una storia, è un insieme di tratti di identificazione che costruiscono una specie di verità vigente, fondata testualmente.

 

«La gestione moderna, nelle sue fatture nazionali, ostenta la propria passione per la verità, e questa verità fa filare […] Proprio qui entra in gioco la psicanalisi, precisamente come analisi che si prende il testo, così come esso si dice e come tace»[2].

 

Lo lascia parlare, lo aiuta a domandare.

In merito alla comunanza dei due,

uno sdraiato e uno seduto,

si può dire che a nessuno dei due

stia bene il mondo come è.

 

Non si può fare analisi

‑ sul versante dell’analista,

non si può fare questo mestiere ‑

se il mondo piace come è,

perché altrimenti si tenderà a

produrre le condizioni

di una prestazione di adattamento.

Adattarsi implica un riconoscimento aproblematico di una verità costituita. C’è già, ha prodotto effetti che da tempo si sono organizzati in una normalità. In base a questa si fa terapia, affinché un soggetto malconcio si riadatti finalmente a questo mondo vero, già definito e pronto per l’uso, che non necessita di troppe domande.

 

 

  1. Chel’analizzante ritorni a essere un soggetto produttivo, a fare produzione e riproduzione dell’adattamento, del consenso silenzioso e delle identificazioni con la verità o viabilità stabilita.

Intorno al posto politico dell’analista. La presa di distanza di Freud da ogni concezione prestabilita – politica, religiosa, militare – non solo non era qualunquismo o posizione apolitica, come se fosse possibile, ma traccia etica seminale.

L’analista, nella sua funzione, non ha morale.

Il suo compito è etico.

 

L’analizzante, prima dell’analisi, cerca di imparare a godere del potere; lanalista è colui che non gode del potere.

È una definizione politica dell’analista.

Fa testo nei transfert e nella conduzione della Cura, nel suo inevitabile impegno per la formazione degli analisti, nella trasmissione della psicanalisi, nella politica dell’essere-in-comune. Se l’analista gode del potere è tagliato fuori a prescindere dai propri sforzi: perché parla lo stesso linguaggio del sintomo e del potere che lo rappresenta. E possiamo essere certi che su quel terreno il sintomo resta il più bravo.

 

 

  1. Le tre professioni impossibili.

Educare, governare, psicanalizzare[3]. Ancora, i tre verbi. Gli impossibili di Freud.

Il primo verbo, e-ducĕre, portare l’uomo fuori dalla rozza natura, ha bisogno, per via di quel fuori, di un poiéo antico. Esso crea, genera, fa sì che avvenga; inventa e compone, scrive e poeta, poi passa e consuma. È la formazione, e non solo dello psicanalista.

“Governare” è kybernân, dirigere una nave. Il capitano (kýbernos) giustamente tiene molto alla kýbe, la testa; non solo la sua, ma quella di tutti i marinai, il popolo della nave. Ecco la politica. Certo è pólis, la città, ma prima della sua immagine residenziale è moto e tempesta, alleanze e furore.

Il terzo verbo: Freud scrive che psicanalisi “non è un mezzo per rendersi popolari”. Aggiunge, duro con Jung, in una lettera già verso la fine della loro alleanza, “la ΨA farà da sé”[4].

Rendere possibili i tre verbi sarebbe infausta intenzione, somiglia un po’ a rendere conscio l’inconscio. La strada dove psicanalisi ha perso se stessa, consegnandosi anima e divano al sistema ideazionale dominante, alla sua protervia, volontà di dominio, eliminazione dei conflitti come delle discordanze, terapie di mero riadattamento all’esistente. Ma tant’è, psicanalisi vuol continuare, nonostante tutto, a fare domande. Si ostina.

È una sua necessità.

Per tenere alta la forza dei tre impossibili – è grazie a loro che le analisi formano – potrebbe, psicanalisi, allearsi un po’ di più con le signore dei primi due verbi (“educazione, politica”), creature umane dell’essere-in-comune, donne di carattere, poco inclini alle sottomissioni, ineducabili quel che basta, affascinanti perché sfuggenti in eterno, struggenti e intrattabili, mai piegate né pieghevoli parole da taschino, fatte apposta per complicare le nostre vite. Forse psicanalisi non vuole più stare senza di loro, poesia e politica; ha bisogno del loro aiuto. La scrittura, la nave.

 

 

  1. La ragione medica si fonda nei secoli sulla cura dello sguardo, un occhio che guarda.

Tale ratio è oggi aumentata in maniera esponenziale. Tale tendenza visiva sostituisce all’occhio umano quello dei dispositivi che promettono di aumentare a dismisura la capacità di vedere.

Freud, nelle sue lezioni di Introduzione alla psicanalisi, la prima volta di fronte agli studenti di psichiatria dell’Università di Vienna, inizia così: «Voi in medicina siete stati abituati a vedere»[5].

Improvvisamente, l’inizio della fine.

In psicanalisi, si tratta di tutt’altro. Ci vuole orecchio.La cosa, l’altro, non si vede.

 

Il modo in cui la psicanalisi si colloca, in questo senso, rispetto all’orizzonte dei saperi è indicato in una maniera abbastanza chiara dalla differenza che, nella pratica analitica, si istituisce tra la deviazione narcisistica e la destituzione soggettiva. Con la prima uno psicanalista, pur fallendo come tale, può pensare che il suo rapporto con l’analisi consista nel trarre da questo fallimento un bellissimo caso clinico e pubblicarlo; con la seconda, invece, l’analista sa cessare di essere il soggetto supposto sapere, perché il suo compito è di far sì che qualcosa accada non come conseguenza di un suo potere e neanche di una sua previsione, mettendo così in evidenza quanto, nella forza che circola nel riprodursi dei saperi, richieda un passaggio coerente con questa modalità propria della psicanalisi.

Per questo ritengo quasi sempre perniciose, anche se a volte danno degli esiti interessanti, quelle forme di utilizzazione della psicanalisi all’interno delle più diverse discipline, quando la psicanalisi deve fare da stampella ad un assetto epistemologico che vuole sopravvivere alle proprie crisi senza mettersi in questione, per esempio espandendo il repertorio degli strumenti critici, o integrando nuovi concetti e terminologie, ma solo a condizione che tutto resti com’è[6].

 

La «destituzione soggettiva» può imporsi, in quanto stile che tiene insieme analizzante e analista, proprio perché nella scena dell’analisi, la cosa – l’uno, l’altro, l’oggetto, il sintomo, – alla lettera, non si vede. La parola ha questa accortezza, questo gusto di non farsi vedere.

 

 

  1. L’inconscio, sostiene Lacan, è il fatto che ça parle, che qualcosa parla. È un modo di dire. Si potrebbe dire anche ça pense, qualcosa parla o pensa al posto della persona; oppure ça s’écrit.

Inc potrebbe essere non qualcosa a cui si pensa, ma ciò che pensa. Non un oggetto di cui si scrive, ma ciò che scrive (ça s’écrit).

Forse non

sarebbe un oggetto,

della conoscenza o della psicologia,

ma se è ciò che pensa

o che domanda,

dovremmo prenderlo nel suo senso,

differente forma

– o forma della differenza –

di Objektiver Geist,

mai visto uno spirito oggettivo così,

pensiero senza soggetto;

non si vede proprio e

sembra una cosa meravigliosa,

portatrice di stupori e racconti,

un pensiero senza autore,

pensate, nessuno che dica “Io”.

 

 

  1. Psicanalisi porta in campo la questione del senza-autore. Una maniera di pensare al pensiero come a un pensiero senza oggetto. Domanda infinita, non produce alcun oggetto; non avendo termine, non fa che crearli. Freud li pensa oggetti verbali. Nulla che sia identificabile del tutto con un portato concreto, reale.

Non prove da offrire, ma solo, come scrive Freud a proposito di Dora, storie, racconti.

 

Psicanalisi,

fa opera.

Domanda infinita e senza riposo

(anche le risposte restano domande),

non produce alcun oggetto

neanche tela, spartito.

Tuttavia, lei crea e lo fa di continuo.

Nulla che appartenga alla produzione, al capitalizzabile.

 

Per questo psicanalisi

è un sapere senza oggetto.

Un’analisi posa di volta in volta

reperti suoni tracce di cambiamento,

che si possono provare

si provano proprio

ma senza prove

senza l’onere della prova.

 

Psicanalisi è opera: non riducibile ad atto autoriale. È senza-autore. Nodo cruciale della formazione. Opera che solleva dal bisogno della prigione di una forma materiale della vita, dello sviluppo o della crescita. Tratti di identificazione che dovrebbero, secondo credenza, orientare una strada senza intoppi. Psicanalisi ha un compito, che noi psicanalisti ci divertiamo a dire in molteplici modi, come si faceva un tempo con la questione dell’essere[7].

Ha un compito di καταστροφή.

L’atto analitico non realizza né produce oggetti, ma soggetto: proprio nella καταστροϕή

katà strophé,

“ribaltatura”, “collateralità”,

se non sparizione,

di oggetti “da fare”.

Katà strophé indica, nel suo tempo greco, lo scioglimento dell’intreccio, la snodatura che accadeva alla fine della tragedia, nel teatro dei Greci.

 

Il suo senso è katà (giù, sotto)

e strépho, (volgo),

il volgere della cosa che,

nella ri-balta, ri-esce

in forma invertita

in apparenza scomposta.

Come una bambola immersa nell’acqua, che si gira.

Ri-esce un risultato imprevisto, non voluto, che apre a ulteriori rovesciamenti.

 

In analisi abbiamo a che fare

con questo katà che strofa di continuo,

giravolta della domanda,

che ritorna e immette l’atto analitico

in un atto poetico,

senza adattamento.

Come se i due, in genere

piuttosto fermi su divano e poltrona,

fossero lì a vedere l’invisibile,

su uno schermo che si materializza,

katà che strofa di continuo

pieno di cose nella forma di parole,

lo spazio della parola in analisi

è inesistente, non ha luogo

nel mondo dell’aver-luogo

come affermazione oggettiva.

Ha eccome luogo

nel non-luogo del mondo,

nel non del suo a-venire.

Qui la parola analitica

è il più-reale tra gli eventi.

 

Senza oggetti, si pensa meglio. Si domanda, senza dover essere autori, senza il peso del pensiero padrone e neppure della servitù all’ideale di una terapia.

In realtà l’analisi non dovrebbe

creare simulacri, copie del potere,

neppure adepti o epigoni, ma

persone appassionate di una prassi

che rilasci altre strofe, effetti di controsenso.

 

 

  1. Il discorso non è capitalista.

 

La verità del discorso analitico […] è irricevibile da qualunque ordine sociale, borghese o proletario che sia, e per questo è osteggiato in tutti i modi: combattuto una volta dal discorso religioso e oggi da quello laico della scienza che attraverso il cognitivismo e il campo delle neuroscienze sta sferrando l’attacco più violento che si sia mai visto[8].

 

Che qualcosa che si può chiamare la sventura, ma si deve anche lasciare senza nome, possa in certo modo essere messo in comune, è un che di misterioso, forse ingannevole, forse indicibilmente vero[9].

 

Non è il caso di restare impassibili ‑ o nell’evitamento ‑ riguardo  a un sistema sociale e politico che, ispirato a e da un rozzo neoliberismo[10], ha effetti deleteri sui gruppi umani di una nazione, una città o una famiglia.

Credo che interessarci a ciò che psicanalisi può insegnare rispetto alla questione del politico significhi fare i conti con la sua stessa necessità. Questa esiste oggi non tanto per via del disagio individuale, le terapie, i lenimenti dovuti alle cure, ma soprattutto ‑ per non dire, ormai, soltanto ‑ perché «l’inconscio è la politica».

Nel seminario del 1969-1970, Il rovescio della psicanalisi[11], Lacan espone la sua teoria dei quattro discorsi: il discorso del padrone, dell’università, dell’isterica e dello psicanalista. Poco tempo dopo, a Milano nel 1972, aggiunge un quinto discorso, quello del capitalista:

 

– la crisi, non del discorso del padrone, ma del discorso capitalista, che ne è il sostituto, è aperta.

Non vi dico, assolutamente, che il discorso capitalista sia debole, al contrario è qualcosa di pazzescamente astuto, vero?

Molto astuto, ma destinato a scoppiare.

Insomma, è il discorso più astuto che si sia mai tenuto. Ma destinato a scoppiare. Perché è insostenibile.

È insostenibile… con un giochetto che potrei spiegarvi… perché, il discorso del capitalista è là, vedete [indica le formule alla lavagna] … un piccolo scambio tra S1 e $, che è il soggetto… basta perché proceda come su delle rotelle, non potrebbe correre meglio, ma appunto va così veloce da consumarsi, si consuma fino a consunzione[12].

 

Meglio appassirsi nella finta del god-(i)-mento che rischiarsi nella libertà in questione. Che non va senza l’Altro.

È per questo che psicanalisi non è per tutti. E le dispiace.

 

Nel corso di scritti e seminari tenuti negli anni dal 1968 in poi, Lacan ha sempre più distinto un “discorso del capitalista” dal tradizionale “discorso del padrone”. Il primo sarebbe caratterizzato da una inedita “ingiunzione al godimento”, caratteristica del capitalismo nella sua fase di dominio della fantasmagoria consumista delle merci, mentre il secondo era ancora dominato dal rapporto servo-signore e dalla lotta per il riconoscimento.

Questa riflessione di Lacan è direttamente condizionata dagli eventi del Sessantotto e dal difficile dialogo con gli studenti in rivolta, i quali, secondo Lacan, avrebbero continuato a ragionare pensando a un “padrone repressivo” nei riguardi del desiderio, piuttosto che a un capitalista produttore di godimento consumistico. Oltre che essere direttamente ispirata dagli eventi degli anni in cui si svolgeva il seminario, tale riflessione permette di avviare una riflessione sulla categoria di “inconscio sociale” (distinguendolo da inconscio personale e collettivo) e del suo attuale rapporto con le forme del capitale[13].

 

Si dà legame sociale tra umani solo se il discorso tra loro, la possibilità di lasciar circolare la parola ‑ che non è la cosa ‑, produce la possibilità per ognuno di dar corpo di parola e di pensiero e di domanda a ciò che lo lega all’altro; ovvero che di volta in volta il circolo non si chiuda, dis-corra in qua e in là. Dando corpo ‑ senza che, nel concetto, si possa sapere in fine del suo movimento e delle sue ragioni ‑ a questo insieme comune, à corps perdu, che consiste per ognuno nella possibilità (necessità) di rendere presentabile a un altro umano non la perdita (che non si presenta), ma la possibilità di rappresentarsela: scambiandosi ognuno, come moneta dell’esistenza, il piacere di un godimento che, da impossibile testimone, ci fa parlare senza fine.

Così, il dis-cursus, lo scorrere differentemente, il correre da un luogo all’altro, l’agitarsi della parola, i verba che sempre volant, sono testi dell’interminabile che sta ogni volta al posto del god definitivo.

Psicanalisi esiste, tra l’altro, per dare corpo senza corpo a questo piacere del testo.

 

Ma, mentre nel ‘discorso del padrone’ era quest’ultimo l’”agente”, ovvero la figura che dirige tutta la struttura del discorso avvalendosi della legge, nel ‘discorso del capitalista’ l’agente è il soggetto. Adesso è lui – che dovrebbe essere, in quanto soggetto, barrato – a trovarsi nel posto del comando[14]. Quindi ora, poiché il soggetto è senz’argine,

 

non c’è altra verità che la propria, è il soggetto al potere, il trionfo del narcisismo e dell’adorazione della propria personalità. […] Questa  posizione  si  manifesta  nel  capitalismo  odierno,  il  quale  ha  bisogno  di  soggetti  che  non si  vergognino  del  loro  godimento;  non  esiste  più  la  contraddizione  tra ideale e godimento[15].

 

Nel ‘discorso del capitalista’ la barra, la barriera dell’impossibile del godimento non c’è più. Tale venir meno va legato a uno dei nostri tre impossibili, la politica. C’è infatti qualche conseguenza. Il posto della verità non è più inaccessibile, quindi il ‘discorso del capitalista’ non fa più legame sociale, se questo legame esiste proprio per trasmetterci l’un l’altro il senso di una perdita costitutiva, ovvero l’inaccessibilità della verità. Se per il discorso dominante l’impossibile del vero ‑ in quanto ricchezza comune ‑ viene eliminato, la scena cambia completamente: se la verità non è più impossibile, se il godimento si deve dare per forza, tutto diventa letteralmente merce, mezzo per il godimento a portata di mano. Non può esserci più interesse per il legame sociale, fondato sulla possibilità comune di scambiarci la perdita, il vuoto parlante, la mancanza.

Questa, grazie al legame, poteva divenire articolazione, parola, dilemma al lavoro, testimonianza; qualcosa che di per sé poneva sempre un po’ più in là la possibilità di non identificarsi alla merce in quanto tale. Anche perché la risorsa di scambiarsi la perdita ‑ l’impossibile, l’ancóra, l’insuccesso, la mancanza ‑, come sanno i bambini nei loro giochi in comune, ha la funzione di vivere il desiderio nella relazione tra noi.

Prima dell’egemonia del discorso del capitalista poteva darsi ancora legame sociale, adesso in teoria non più.

Ma il desiderio dell’analista (del vuol dire che non solo non appartiene all’analista, ma che dispone di lei o lui) non aderisce ad alcuna idea, pensiero, teoria, prospettiva di accomodamento.

Il desiderio dello psicanalista non produce adattamento, ma interroga la questione della possibile libertà del soggetto nei suoi atti; è una delle rare lotte rimaste contro questa ennesima forma del discorso paranoico, chiamato oggi “del capitalista”.

 

 

In luogo di un vuoto parlante o di una mancanza senza troppa credenza, resta la depressione, volto misconoscente della malinconia. Scaduti il suo tempo o il suo modo, resta solo la “disperata rivolta” della paranoia: imbarazzo, incomodo, dell’altro e di sé.

In vece: cosa faccio nel mondo, nel tempo, se sono mortale? Resta la possibilità di scambiare con altri simili tale essere-per-la-morte, farne dialogo, discorso,

perdita che scorre, cambia di posto,

tras ferisce

con versarla l’un l’altro

 

se questo non è umano,

resta solo divenire merce

depressi nelle consumazioni.

 

Il desiderio dell’analista non può piegarsi a diventare merce, tantomeno di scambio, in vista di un fine o tornaconto. Questa è la fondale ragione per cui psicanalisi “è costitutivamente (in)attuale”[16]. Nell’ambito del discorso del capitalista non c’è posto per l’atto dello psicanalista, non si sta preparando il luogo per il suo a venire. Ci si dispone e ci si affanna soltanto a sostituirlo con l’atto terapeutico.

 

Il discorso dello psicanalista –

se non percuote né si affanna,

inutile sintomo individualista

con parole sante in canna -,

il discorso dello psicanalista

non è capitalista.

 

Tra noi,

insopprimibile, incalcolabile

messa in questione,

domanda collettiva che fa

barriera al discorso del capitalista

che cerca con affanno di distruggere

la passione del godimento,

i nostri impossibili al lavoro,

 

Tra noi

la domanda

non sappiamo se è molto

o solo qualcosa.

Ma resta

la nostra necessità.

 

Sarebbe politicamente necessario prendere sul serio Lacan: «A denunciare il capitalismo, lo si rinforza sempre»[17]. Come rimproverare un discorso ossessivo sdraiato sul divano: non aspetta altro per rinsaldarsi.

 

Il credente è un dipendente

ogni potere marcia su questo

l’unica è la democrazia, sovversione pura.

Per questo ci si è uniti sul fatto che nessuno possa esercitarla[18].

La democrazia è essere-in-comune senza credenza;

vuol dire non

che non esista,

ma che se ne dà costantemente lavoro in atto: è la politica.

 

Forse democrazia andrebbe annoverata tra le arti.

Ma la perdita è sempre in atto e psicanalisi non lavora per la sua eliminazione.

 

De testa bile

l’idea che psicanalisi

debba co rispondere

alla realtà, a una vera vita,

all’adaequatio rei et intellectus

o al miglioramento dei principi morali.

 

psicanalisi è

es-posta

abbiamo una responsabilità pubblica.

 

 

Note:

[1] P. Legendre, Godere del potere. Trattato sulla burocrazia patriota, Marsilio 1977, p. 7. Credo che possa essere stato anche questo libro a ispirare il Manifesto per la psicanalisi, dove gli autori scrivono: «Guarire è un termine molto ambiguo, poiché il suo significato è che le cose ritornino o si mettano in ordine. Ritorno dunque alla normalizzazione. Si può guarire regolando la propria condotta su quella di un gruppo, all’inverso dunque della finalità della psicanalisi che è, a questo proposito, di permettere “un legame sociale sbarazzato dalle oscenità di gruppo” (Lacan 1972). Ciò implica che il soggetto abbia cessato, al termine della sua analisi, di godere del potere – di quello che esercita ma anche di quello al quale si sottomette, perché lo confonde con una causa. Non sottovalutiamo che: è sicuro che gli psicanalisti non sono sempre e ovunque chiari su questo punto. Possiamo certamente fantasmatizzare una psicanalisi corta o ben oleata. Non è mai il caso. La psicanalisi esiste solo a condizione di non dimenticare in che cosa essa fa rottura civilizzatrice nel modo di aggregazione umano. (Aa. Vv., Manifeste pour la psychanalyse, La fabrique éditions, pp. 70-1; trad. it., Manifesto per la psicanalisi, ETS, pp. 78-9).

[2] P. Legendre, ibidem.

[3] S. Freud, Die endliche und unendliche Analyse [1937], in Gesammelte Werke, vol XVI, Fischer Verlag, Frankfurt am Main 1961, p. 94; trad. it., Analisi terminabile e interminabile, in Opere, vol. XI, Boringhieri, Torino 1979, p. 531.

[4] «La psicanalisi farà da sé»: Freud lo scrive in italiano, il 30 novembre 1911. Cfr. Lettere tra Freud e Jung (1906-1913), Boringhieri, Torino, 1990, p. 505. Ψ è la ventitreesima lettera dell’alfabeto greco, trascrive il gruppo consonantico /ps/.

[5] S. Freud, Vorlesungen zur Einführung in die Psychoanalyse [1915-1917], in Gesammelte Werke, XI, Fischer Verlag, Frankfurt am Main 1969, p. 9; trad. it., Introduzione alla psicoanalisi, in Opere, vol. VIII, Boringhieri, Torino 1976, p. 200.

[6] A. Brandalise, La psicanalisi, il post-umano e l’università, in Comunità psicoanalitica, n. 1, Rivista della Comunità Internazionale di Psicoanalisi, Edizioni ETS, Pisa 2018, pp. 106-07.

[7] «L’essere si dice in molteplici modi» (to de on legetai men pollakos), Aristotele, Metafisica, IV,2,33s.

[8] B. Moroncini, Lacan politico, Cronopio, Napoli 2014, p. 102. Dello stesso autore si veda anche Saggio sull’indifferenza in materia di politica. Freud, Lacan e la politica dell’inconscio, in B. Moroncini e F. C. Papparo, Diffrazioni (Due), La psicoanalisi fra Kultur e civilizzazione, Federico II University Press, Napoli 2018, pp. 55-79.

[9] M. Blanchot, Lettera a G. Bataille del 9-8-1960, in Aa. Vv., Riga 37- Maurice Blanchot, Marcos y Marcos, Milano 2017, p. 78.

[10] In questa parola: grossolano, incolto, becero uso del termine ‘libertà’, applicato alla resa incondizionata al consumo, al prodotto, al cosa tra cose che l’umano deve divenire per essere definitivamente servo di un godimento spettrale.

[11] J. Lacan, Le Séminaire, Livre XVII, L’envers de la psychanalyse, Seuil, Paris 1991; ed. it. Il seminario, Libro XVII, Il rovescio della psicanalisi, Einaudi, Torino 2001.

[12] J. Lacan, Lacan in Italia, En Italie Lacan, 1953-1978, La salamandra, Milano 1978, p. 196 (testo francese, p. 48).

[13] M. Pezzella, Il discorso del capitalista. Tra Marx e Lacan, Fondazione per la critica sociale, 7 novembre 2018; (www.fondazionecriticasociale.org/2018/11/07/il-discorso-del-capitalista-tra-marx-e-lacan/). “Inconscio sociale” è infatti un ciclo di seminari su questi temi, a cura di M. Cappitti, R. Finelli e M. Pezzella, tenuti a Firenze (Sms Rifredi) e a Roma (Università Roma 3, Dipartimento di Filosofia), ottobre 2018-maggio 2019.

[14] Sul “discorso del capitalista” si veda anche F. Quesito, Dal discorso del padrone al discorso del potere globalizzato, in Comunità Psicoanalitica n. 2, Edizioni ETS, Pisa 2019, p. 25 sgg.

[15] F. Blanco, Il  rovescio  della  psicoanalisi, conferenza a Padova, 1 marzo 2008, cit. in S. Cimarelli, Una lettura introduttiva ai quattro discorsi di Lacan, in “Attualità Lacaniana”, n. 11/2010, p. 182.

[16] A. Rescio, Inconscio e umorismo, in “Trieb. Intorno alla psicanalisi”, La Spezia 1982, p. 3.

[17] J. Lacan, Télévision, Seuil, Paris 1974, p. 26; trad. it. in Altri scritti, cit., p. 513.

[18] Cfr. S. Freud, Die Frage der Laienanalyse [1926] (La domanda dell’analisi profana).

 

***

 

Alberto Zino, psicanalista e scrittore, dal 1979 a Firenze e ad Empoli. Allievo di Aldo Rescio, è stato nel 1975 fondatore del Collettivo Freudiano di La Spezia e nel 1980 della Scuola Psicanalitica Freudiana di la Spezia e Firenze. Ha svolto attività didattica e di ricerca nelle Facoltà di Filosofia e Psicologia delle Università di Pisa e Firenze. Fondatore del movimento Psicanalisi Critica di Firenze, analista didatta e conduttore di gruppi di Teoria della Clinica, per la formazione degli psicanalisti. Dal 1992 tiene a Firenze il Seminario di Psicanalisi Critica. Presidente della Comunità Internazionale di Psicoanalisi e direttore della sua Rivista, Comunità Psicoanalitica, Edizioni ETS. È redattore della rivista Altraparola.

Per le Edizioni ETS ha pubblicato saggi e libri, tra cui: L’incertezza delle voci. Per una psicanalisi dello sviluppo, 2002; Psicanalisi e filosofia. Il male, 2004; Vita comune. Per un’etica, Freud, 2005; Lo spaesamento e il testimone, 2006; La passione dell’Altro, 2008; Salvo a parlarne. Storia di Elle, 2009; Frammenti di fondazione per la psicanalisi critica, 2010; La condizione psicanalitica, 2012; Appena emersi, un luogo, in Nancy, Blanchot e al., “Scritture della creazione”, 2013; Il panico e la sorgente. Psicanalisi, DSM e altre domande, 2014; Necessità della psicanalisi, 2019.  Orchidee sparse per dono in un prato morto è in Aa. Vv., Celan e Heidegger (Press & Archeos, 2017).  Nel 2016 ha curato il volume collettivo Derrida, Blanchot, Kafka tra psicanalisi e filosofia, ETS. Con Costanza Tabacco ha curato l’edizione italiana di Lacoue-Labarthe, Nancy, Il panico politico, ETS, 2017.