Invecchiamento e psicoanalisi – di Franco Berardi Bifo
di Franco Berardi Bifo
“O! Let me not be mad,
not mad, sweet heaven
keep me in temper;
I would not be mad!”
(William Shakespeare: King Lear)
La letteratura ha raccontato l’invecchiamento, mentre, per ragioni che vedremo, la psicoanalisi non se n’è voluta occupare.
Eos compare nell’opera di Omero. E’ una ninfa divina vestita di una tunica color zafferano che all’alba fa sorgere il sole.
Un giorno Eos si giacque con Ares, il dio della guerra, e allora Afrodite, inviperita per il tradimento, punì Eos condannandola a cadere innamorata di comuni mortali.
Eos allora si mise a correre nei boschi cercando bei cacciatori da portare nel suo letto, e così conobbe Titone, un giovane di straordinaria bellezza e di nobili origini che si aggirava nei pressi della città di Troia.
Eos se ne innamorò così perdutamente che chiese a Zeus di concedere al suo bellissimo amante l’immortalità. Zeus, che provava per lei simpatia, concesse l’immortalità che Eos gli stava chiedendo, e Titone poté godere degli amori della ninfa per sempre. Per sempre? Non proprio, perché nella sua ingenuità innamorata, la ninfa dimenticò che gli umani, a differenza degli dei, hanno il triste difetto di invecchiare. Non ci pensò, proprio non le venne in mente, perché gli dei non sanno cosa sia l’invecchiamento.
Leggiamo come Roberto Calasso racconta questa storia ne Il Cacciatore Celeste:
“Per Titone Eos volle chiedere a Zeus, e ottenne, una vita senza fine. Ma dimenticò di chiedere la giovinezza senza fine. Volò con lui presso gli Etiopi, e per qualche anno pensò che sarebbero vissuti insieme per sempre. Ora la mattina si svegliava nello stesso letto con quell’uomo, e sotto i suoi occhi si truccava come una danzatrice. Ma un giorno si accorse che Titone invecchiava. Come per tutte le figlie dei Titani, per Eos era difficile distinguere la sua mente dal resto che la componeva: innanzitutto luce e tempo. Articolare un pensiero era uno sforzo, un’impresa rara e innaturale. Perciò non aveva saputo formulare ciò che avrebbe dovuto chiedere per Titone. Che cos’era la giovinezza se non l’essere stesso? Non occorreva nominarla.
Come una sensazione pericolosa e ignota provò uno smarrimento del cuore, guardando quell’uomo che si essiccava accanto a lei. Il cacciatore Titone si era fatto più piccolo, il suo corpo raggrinzito. Anche la voce di Titone cambiava, nelle loro lunghe conversazioni. Aveva qualcosa di testardo, dolce e disperato. Eos capì che non avrebbe più potuto dividere il suo letto con quel corpo. Lo prese in braccio, come un bambino malato e lo adagiò in un’altra stanza. Ogni sera, quando tornava, gli serviva cibi degli uomini, mescolati ad altri, che gli uomini non conoscono. Titone ormai non parlava più. Dietro la parete Eos udiva, nella notte un suono tenace, inarticolato, l’unico suono che la raggiungesse. Una volta aprì la porta della sua stanza e vide il letto vuoto. Poi, nella semioscurità sentì un rumore che non era certo la voce di Titone, ma pure le parve riconoscere. Abbassò lo sguardo e riconobbe un insetto che si stava avvicinando al suo piede morbido: una cicala. La sollevò e la chiuse in una gabbia. Poi la depose accanto al letto dove continuava ad accogliere i suoi amanti. Ora Titone vedeva accanto a sé, come un paesaggio di massi e di tronchi, le boccette e le minuscole scatole che Eos teneva schierate per truccarsi. Ogni mattina Eos lo nutriva amorosamente di foglie e di ambrosia. Il frinire della cicala l’accompagnava nel sonno.”
Eos guardò verso il basso e in un angolo vide una cicala che disperatamente la stava forse chiamando, o stava forse cantando il suo estremo canto d’amore.
L’invecchiamento maschile, il rancore
In un racconto bellissimo e doloroso, Arthur Schnitzler racconta Casanova, ormai sul limite della vecchiezza, nel suo viaggio di ritorno verso Venezia:
un incontro con vecchi conoscenti dalle parti di Mantova, la conoscenza della giovanissima Marcolina, e del giovane ufficiale Lorenzi amante di Marcolina. Il vecchio Casanova è preso dal desiderio di Marcolina e dall’invidia per il giovane ufficiale nel quale riconosce la giovinezza, la bellezza, l’arroganza che erano state un tempo le sue, ma ora non più.
Eccolo allora demoniaco, sordido, tessere trame ignobili per prendere il posto di Lorenzi, e nel buio insinuarsi nel letto di Marcolina.
Casanova è stanco, e accetta di fare la spia pur di poter ritornare a Venezia.
Traditore per stanchezza, ha perduto il senso dell’avventura, gli rimane soltanto l’intrigo, la bassezza, e una voglia malinconica di tornare a casa.
“C’è un giardino su un’isola vicino a Venezia, il giardino di un convento in cui sono entrato l’ultima volta alcuni decenni fa, dove la notte si sentiva lo stesso profumo di stasera qui.” (534)… “pensò di nuovo a quella notte della sua giovinezza nel giardino del convento o in un altro parco, un’altra notte, non sapeva più quale, forse erano cento notti che confluivano in una sola nel ricordo” (Schnitzler: Opere, Mondadori, pag. 546)
Quella lucentezza notturna è perduta per sempre, e torna solo come struggimento, confuso ricordo suggerito da un profumo, da una vibrazione di molecole nell’aria umida.
Il risentimento nasce da questo ritorno di frammenti percettivi cui il sistema nervoso senescente non è più capace di dare autenticità vissuta.
Risentimento: il ri-sentire quel che era un tempo e non è più diviene rabbiosa volontà di vendetta contro Marcolina che non si lascia sedurre né dalla sua fama ormai un po’ stinta, né dalle sue maniere di vecchio libertino.
E volontà di vendetta contro Lorenzi, che pur privo della fama intrigante di Casanova, può godere della complicità erotica della ragazza.
Perché la psicoanalisi non vede l’invecchiamento
Il mondo narrativo di Schnitzler incrocia la prospettiva freudiana dell’introspezione, ma se Schnitzler mette in scena l’invecchiamento come abisso di amarezza e di cinismo, Freud non ha mai affrontato il nodo teorico dell’invecchiamento.
E’ noto che secondo Freud la terapia psicoanalitica non si applica alle persone che abbiano raggiunto un’età avanzata. Avanzata quanto non sapremmo dirlo: all’epoca si considerava vecchio un cinquantenne, mentre oggi si considera vecchia una persona che abbia superato i sessanta, o i sessantacinque. La ragione che Freud adduce per questo diniego è un po’ labile: nel caso di una persona anziana il materiale inconscio da elaborare è troppo, e il labirinto della memoria diviene eccessivamente complicato per poterne uscire in tempo utile.
“La terapia psicoanalitica non è attualmente applicabile a tutti i casi. Per quanto ne so ha alcune limitazioni: richiede un certo grado di maturità nella comprensione del paziente e per questo non è adatta ai giovanissimi o per gli adulti che siano deboli di mente o privi di educazione. Inoltre fallisce con persone che siano troppo avanti con l’età perché data la quantità di contenuti che nella loro esperienza si sono accumulati prenderebbe un tempo così lungo che alla fine del trattamento avrebbero raggiunto un momento della vita in cui non si può più attribuire importanza alla salute nervosa.” (Freud, 1898)
Al di là delle motivazioni addotte da Freud (piuttosto deboli), c’è una ragione profonda per cui la psicoanalisi considera con sospetto l’analisi di una persona anziana.
“La questione dell’invecchiamento è ai limiti della psicoanalisi, si trova insieme nel suo campo e fuori del suo campo perché per il soggetto che invecchia, camminando nel tempo e cercando di cogliere questo movimento che è il suo invecchiamento, questo movimento è analizzabile in quanto si dispiega come desiderio, angoscia, fantasma, difesa, e al tempo stesso sfugge all’analisi in quanto si iscrive nella realtà, nell’attualità, nella biofisica, nella termodinamica.” (Henri Bianchi: in La question du viellissement, Dunod, 1989, Avant propos, 3-4).
Il fatto è che l’invecchiamento, pur ponendo problemi centrali per la riflessione psicoanalitica, li pone su un terreno spurio, un terreno da cui la psicoanalisi ha inteso, fin dal suo principio emanciparsi: il terreno neurologico.
Il passaggio concettuale su cui Freud fonda la sua disciplina è un allontanamento dalla neurologia. Solo lasciandosi alle spalle le spiegazioni neuro-fisiche della sofferenza mentale, Freud può giungere alla creazione concettuale dell’inconscio, che non appartiene alla sfera della fisiologia o della neurologia, ma alla sfera di relazione tra sesso e linguaggio.
Dal momento che Freud compie questo spostamento concettuale le problematiche fisio-neurologiche non sono certo abolite, ma sono messe da parte nella sfera propriamente analitica. Lo psicoanalista, in quanto tale, non prende in considerazione le questioni neurologiche, senza per questo negarne l’esistenza e neppure la rilevanza. Ma quelle questioni sono di pertinenza di un’altra disciplina che precede la psicoanalisi e da cui la psicoanalisi si emancipa.
Ma il discorso sull’invecchiamento non può ignorare la neurologia, perché il tempo lascia una traccia che non è soltanto linguistica o psichica, ma è una traccia fisica dovuta alla degradazione dei tessuti cerebrali, alla perdita di definizione della percezione, insomma all’entropia materiale del corpo sessuato.
Nell’inconscio senile non sono registrate soltanto le esperienze psichiche ma anche le tracce di una deformazione neurologica che incide sulla competenza cognitiva, e in conclusione sullo stato psichico.
“Per quel che ne sappiamo il processo di invecchiamento inizia con minimi mutamenti clinicamente non osservabili che si verificano a livello molecolare. Questi effetti di perdita di ordine si moltiplicano fino ad assumere un carattere di valanga e fino a manifestarsi in un deterioramento funzionale del cervello: perdita neuronale progressiva, riduzione della neuro-tramissione, disintegrazione dei vasi sanguigni.” (Aging and Neurological Diseases, by Marta Kowalska, Michal Owecki, Michal Prendecki, Katarzyna Wize, Joanna Nowakowska, Wojciech Kozubski, Margarita Lianeri and Jolanta Dorszewska, 2017).
Dunque sì, Freud ha ragione: nella senescenza c’è qualcosa che la psicoanalisi non vede, e non può elaborare: c’è la materia neuro-fisica, che trascende i limiti dell’analisi. Ma chi sono io per dire che Freud ha ragione? Mi faccio ridere. Il vecchio Sigmund non ha tutti torti, ma allora del povero vecchietto cosa ci facciamo? Lo lasciamo alla malefica geriatria, o all’industria delle protesi, o addirittura alla neuro-ingegneria o alla nano-mutazione transumana?
Nessuno vuol prendere sul serio il vecchietto che invece forse ha qualcosa da dire?
Se continuiamo a interrogare la vecchiezza solo dal punto di vista delle riparazioni, delle correzioni di cui parla Franzen, della fitness implacabile e della fisioterapia, non coglieremo l’essenziale della vecchiezza.
La vecchiezza eccede la psicoanalisi perché il suo problema essenziale non è ridurre il malessere o provvisoriamente recuperare il benessere.
Il problema della vecchiezza è l’Essere. O, per essere più precisi, il Divenire.
Se riusciamo a sottrarre la vecchiezza alle sue definizioni eteronome, (vecchiezza è mancanza di questo e di quello) possiamo finalmente farne soggetto del divenire più radicale: il divenire nulla.
Ecco aprirsi la prospettiva della libera morte, il riconoscimento della morte come amica. Non soltanto un atto individuale del tutto libero che porta a compimento l’esperienza del nulla, ma una metafora terapeutica per l’umanità tutt’intera, nell’epoca dell’esaurimento.
L’irruzione della neuro-fisica nel discorso psichiatrico è divenuta brutale con l’esperienza dell’Alzheimer. Naturalmente la demenza senile non è un fenomeno nuovo, ma se in passato era un aspetto marginale della vita collettiva, facilmente integrabile o tollerato come una stranezza, il prolungamento del tempo di vita medio, e l’espansione della popolazione anziana hanno disegnato un nuovo panorama: gli anziani incapaci di curarsi di sé crescono di numero fino a divenire un problema sociale. Eserciti di badanti affollano quindi le città occidentali, mentre eserciti di figli cinquantenni e sessantenni sono investiti da un dramma imprevisto, che diffonde depressione, difficoltà economiche, ansietà e senso di colpa.
L’incapacità di pensare la morte come libera scelta impedisce a coloro che si trovano di fronte alla perdita progressiva del sé consapevole di trovare una via d’uscita. Lo stigma del suicidio di origine religioso è stato riaffermato e consolidato dall’episteme economica, per cui la vita è proprietà che non si può dilapidare e per cui non ci può sottrarre al legame sociale.
Il tema della libera morte, che l’ossessione proprietaria stigmatizza con la parola “suicidio” dovrebbe forse diventare il tema centrale della riflessione ( e della pratica terapeutica) del tempo che viene, ma questo è un altro discorso, difficile e urgente, che forse troveremo il tempo di approfondire altrove.