“Londra, 1665” – di Antonio Tricomi
di Antonio Tricomi
A leggere attentamente i due libri, ci si accorge che il Diario dell’anno della peste, pubblicato anonimo nel 1722, s’incarica di riconvertire in romanzo storico, se non addirittura in disamina sociologica o in trattato politico, il Robinson Crusoe. Capolavoro che, licenziato tre anni prima da Defoe, si rivelerà il prototipo del moderno romanzo non solo d’avventura. Segnalata da un’affinità inerente la tecnica compositiva (in un caso come nell’altro siamo cioè al cospetto di un falso memoriale steso in prima persona), ad accomunare i testi è infatti una profonda sintonia tematica, a sua volta veicolata da una manifesta analogia narrativa.
Volendola «mitologicamente e pedagogicamente» ritrarre alla stregua di «un’interruzione catastrofica della continuità», e dunque come la traumatica «fine di una tradizione e di una storia», nel Robinson Crusoe Defoe aveva raffigurato la nascita del capitalismo e del colonialismo (o, in altre parole, dell’era moderna) al pari di un naufragio. Quello che, occorsogli il 30 settembre 1659, obbligava il protagonista del romanzo, pur di non perire, a reinventare se stesso. A tramutarsi nel precursore dell’«avventuroso, pratico e probo uomo medio del futuro». Nell’antesignano del borghese «conquistatore del mondo, modesto, fragile» e, alla sua maniera, finanche «eroico». In un individuo già intimamente moderno perché a nient’altro incline che a esibire «una virtù etico-economica», a produrre senza sosta, a sviluppare l’«arte del sopravvivere»[1].
Così come lo costringeva, quella funesta traversia, ad accettare definitivamente e persino a rendere del tutto riconoscibile, quantomeno sul piano metanarrativo, il proprio rango di comodo alter ego di Defoe. Nato giusto l’anno dopo tale immaginaria sciagura e quindi pronto, sotto la maschera dell’uomo nuovo Robinson Crusoe, anche a rappresentare se stesso in veste di autore ugualmente proteso verso l’avvenire. Nei panni, cioè, di uno scrittore disposto a ripudiare ogni donchisciottesca fisionomia di sterile utopista, di intellettuale ormai culturalmente negletto appunto perché preoccupato di opporre l’ideale al reale senza più alcun costrutto, per assumere l’identità del moderno, disilluso, pragmatico lavoratore a cottimo. In altri termini, del self-made man. Dello spregiudicato imprenditore di se stesso, chiamato unicamente a trarre profitto dalla propria vocazione letteraria.
E ciò, in una «non-società» di monadi in egual misura intente a svilire l’«alone simbolico e mitologico» di qualunque oggetto, legame o sentimento pur di consacrarsi a un «senso di realtà» che consentisse loro di valutare correttamente l’utilità di ogni azione, cosa o persona. Di ridurre gli interlocutori, le situazioni, i vincoli civili tutti a «utensili» o «beni economici» e, in tal maniera, di «garantirsi materialmente il domani». Ma questo, senza comunque ripudiare l’antica fede in Dio. Perché anzi individui simili – inevitabilmente esposti al rischio di quel pieno fallimento esistenziale in cui pur sempre minacciava di precipitarli l’ansia di autoaffermazione dalla quale ciascuno di loro si percepiva tirannicamente guidato – potevano trovare «forza e conforto solo leggendo la Bibbia». In sostanza, solo immaginando che il Signore, purché essi avessero saputo infaticabilmente dedicarsi ai propri affari e calcolare il proprio tornaconto, mai avrebbe mancato di ricompensare i suoi fedeli. Di assicurare loro la tanto agognata riuscita sociale[2].
In conseguenza del naufragio di cui è vittima Robinson Crusoe, siamo dunque trasportati da Defoe in una dimensione assolutamente mitica: nell’ancestrale età aurea della civiltà capitalistica quale Weber la descriverà nel 1905. In un mondo, perciò, la cui etica arriverà presto a tratteggiare un «summum bonum» – ossia «guadagnare denaro, sempre più denaro, alla condizione di evitare rigorosamente ogni piacere spontaneo» – a tal punto epurato di qualsiasi «considerazione eudemonistica o addirittura edonistica», e poi «pensato come fine a se stesso con tanta purezza», da risultare un imperativo del tutto «trascendente», e in pari grado «irrazionale», rispetto «alla “felicità” o all’“utilità” del singolo individuo». Sicché l’attività lucrativa non resterà «in funzione dell’uomo quale semplice mezzo per soddisfare i bisogni materiali della sua vita», ma diverrà – nientemeno – l’obiettivo ultimo di ogni cittadino, che opererà per corroborare tale meccanismo di profitto. Pur conservandosi, in siffatta ideologia, una serie di sentimenti per parte loro «strettamente connessi a certe rappresentazioni religiose». Di riflesso, «l’ascesi protestante intramondana» potrà agire «violentemente contro il godimento spensierato del possesso». Saprà restringere «il consumo, specialmente il consumo di lusso». Produrrà «l’effetto psicologico di liberare l’attività lucrativa dalle funzioni dell’etica tradizionalistica». E, infine, giungerà a spezzare «le catene che avvincevano la ricerca del guadagno». Non solo legalizzandola ma, ancor più, ritenendola voluta da Dio stesso[3].
Nel Diario dell’anno della peste, la pandemia capace di scombussolare una Londra già simile, nel 1665, alla società capitalistica prefigurata dal Robinson Crusoe sarà allora ritratta da Defoe come l’equivalente logico del naufragio patito dal protagonista di quel romanzo. Come la pur tragica occasione sadicamente offerta alla City, lanciata a ritmi frenetici verso lo sviluppo economico, per affrancarsi da ogni superstite retaggio culturale di matrice arcaica ancora incline a frenarne la corsa in direzione della piena modernità produttiva. È quanto osserva il narratore stesso in un brano del suo falso diario addirittura esiziale, poiché esso consta di asserzioni impudicamente disposte a legittimare quel darwinismo sociale fin dal principio connaturato all’ideologia capitalistica:
E sebbene tale affermazione possa sembrare molto triste, la peste fu, per così dire, una liberazione. Imperversando in modo spaventoso dalla metà di agosto alla metà di ottobre, portò via in quel periodo trenta o quarantamila persone di bassissimo ceto che, se fossero state risparmiate, sarebbero state un intollerabile peso a causa della loro miseria. La City intera non sarebbe stata in grado di sostenere le spese del loro mantenimento, né di provvedere a sfamarle, e quelle sarebbero state allora spinte dalla necessità a saccheggiare la città o la campagna vicina per sopravvivere, il che, prima o poi, avrebbe gettato l’intera nazione, come la City, nel terrore e nel panico[4].
D’altro canto, a pronunciarsi in tal modo è un self-made man che, per parte sua, già somiglia all’individuo descritto da Weber, ossia religiosamente dedito a quell’anti-consumistica operosità lucrativa percepita dal borghese come propria missione nel mondo, specie nella fase aurorale dell’espansione capitalistica. Quando ancora gli si offrono due alternative, cioè lasciare Londra per non esporsi al contagio, correndo però «il rischio di perdere non soltanto la [sua] attività, ma anche i [suoi] beni e, in verità, tutto quello che avev[a] costruito nella [sua] vita», o rimanere in città per «continuare a gestire i [propri] affari e i [propri] notevoli commerci», senza troppo curarsi di «salvaguardare la [sua] salute e la [sua] vita», egli non si limita infatti a scegliere questa seconda soluzione. La considera anche benedetta da un Dio «senza l’ordine o il permesso» del quale nulla accadrà mai a chicchessia. Da un giudice che ognuno è richiesto di eleggere – come invita del resto a fare il Salmo 91 – a proprio «rifugio» e a propria «fortezza». Da un sovrano che peraltro sembra offrire protezione anzitutto a quanti sappiano alacremente costruirsi le loro fortune, sì da potersi poi dimostrare «caritatevoli e generosi cristiani». Da un creatore, perciò, la cui «invisibile segreta mano» ricorda quella, sempre salvifica, del mercato quale lo intende il liberismo, incline a ritenerlo il solo regolatore sociale ammesso[5].
Tant’è che questo Dio vendicativo – osserva il narratore – non impartisce ai londinesi il castigo della peste per punirne l’egoismo civile, assolutamente funzionale alla produttività capitalistica nella misura in cui esso suscita il miraggio di una condizione di vita scevra da affanni per tutti raggiungibile (a patto però di prostrarsi ognuno al proprio istinto di conservazione coltivando ossequiosamente l’arte del guadagno). Invece, il Signore infligge alle sue creature tutte la piaga di un virus oltremodo letale per mortificare la tendenza di troppi cittadini, e dei nullatenenti in primis, ad alimentare – proprio in nome dell’illusione di comunitario benessere smerciata dall’ideologia dominante – una conflittualità sociale viceversa nociva alle logiche, inflessibilmente classiste, dello sviluppo economico. E, nel metterlo in pericolo con tale pandemia, questo stesso intransigente despota ultraterreno getta le basi della collettiva feticizzazione del consolidato ordine pubblico, per di più largendo ai ceti abbienti l’opportunità di confermarsene unici garanti. Difatti, mentre l’ansia di allontanare lo spettro della morte rende gli indigenti persino «impavidi», succubi di «una specie di bestiale temerarietà, per così dire, non fondata né sulla religione né sulla ragionevolezza», sia le autorità sia i benestanti, che direttamente o indirettamente governano la società, possono sfruttare le sostanze di cui dispongono per ribadire la loro supposta primazia etica, «offrendo elemosine in denaro ai più poveri e dando lavoro agli altri». Possono cioè riaffermare l’urgenza di una concordia civile di nuovo raggiungibile non in virtù di leggi pensate per contenere le disuguaglianze tra i cittadini, ma solo con un rilancio della produttività che, se inevitabilmente acuirà le differenze di censo, anche potrà tuttavia tornare ad arricchire la borghesia. A quel punto attenta, pur di non vedere ancora minacciata la sua egemonia, a farsi ipocritamente garante di un sistema di controllo sociale imperniato sull’istituzionalizzazione di un religioso afflato alla carità condiviso dalle «persone ben fornite»[6].
Ecco allora compiersi il vero miracolo del quale è artefice un Onnipotente a suo modo capace di estrema misericordia. Non tanto intervenire affinché «il furore del male si placasse», così da sbugiardare sia la blasfema disperazione e l’atavico fatalismo infine dilagati specialmente tra i reietti, sia gli apocalittici proclami di troppi ciarlatani e falsi pastori abili a sedurre turbe di indigenti, masse di artigiani impoveriti e molti rappresentanti della classe media più inclini «a credere alle profezie, agli scongiuri degli astrologhi, ai sogni e alle storie delle anziane comari», che non ad affidarsi a lui. Né scegliere, semplicemente, di interrompere il contagio per premiare le non poche persone «realmente religiose e sagge» – ministri della fede, predicatori delle più varie confessioni, governanti, ottimati, sparuti gruppi di imbelli losers – che mai avevano smesso di dedicarsi, «in modo autenticamente cristiano, ad adeguate pratiche di pentimento e di mortificazione, come dovrebbe fare un popolo di credenti». Piuttosto, dopo aver appunto cancellato le resistenze al nuovo ancora riconoscibili nella City colpendola dapprima con la peste e, l’anno seguente, con un incendio, consentire alla città di riprendere con più decisione e migliori premesse il proprio balzo verso una matura modernità capitalistica. Dono celeste messo rapidamente a frutto dai beneficiati, se «per il passato non si ebbe mai notizia di un commerciò così attivo per tutta l’Inghilterra», come si registrò nei primi sette anni successivi a tali disavventure[7].
Né va tralasciata un’ulteriore constatazione dell’io narrante. Il quale non si accontenta di notare che, sfinita dal lockdown, la gran parte della popolazione, appena «si diffuse la notizia che la peste non era più maligna come prima», divenne «così imprudente e così incurante di sé e dell’infezione» da rischiare una nuova esposizione al contagio. Dopo aver ammesso che, lì per lì, quasi tutti – pure gli esponenti di quella «bassa plebe» avvezza a un «comportamento dissoluto» – sfilavano «per le vie ringraziando il Signore che si era degnato di liberarli dalla morte», egli chiude infatti il suo diario denunciando «l’irriconoscenza» dai più repentinamente mostrata verso Dio e il ritorno, tra i cittadini, «di ogni sorta di cattiveria». Giudizio, questo offertoci dalla controfigura di Defoe, che forse è lecito interpretare anche come un disvelamento di quell’antropologia negativa in verità sottesa alle promesse di felicità individuale a tutti formulate da un capitalismo viceversa ligio, pur nascostamente, a una cinica visione del mondo di matrice hobbesiana. Oppure intendere al pari di una lucida diagnosi relativa ai processi di autoregolamentazione dell’ordine capitalistico[8].
Si tratti cioè di una pandemia o di altro, un sistema così concepito necessita di periodiche catastrofi sociali che giungano a far piazza pulita dei gangli improduttivi del consorzio civile. Che spingano l’intera comunità a ritenere astratta o turpemente parassitaria ogni pretesa di eguaglianza non subordinata a un rilancio delle logiche lucrative reso a propria volta possibile solo da rinnovati sacrifici imposti, almeno nell’immediato, anzitutto ai cittadini poco o per nulla garantiti. E che ridestino, in ciascuno, una fede pressoché assoluta nell’iniziativa privata. Oltre a un gusto della competizione con i simili, a un piacere di sopravanzare il prossimo, affini a quell’euforico compiacimento di aver saputo salvaguardare se stesso che suggerisce al narratore di sigillare con questi «versi rozzi ma sinceri» il suo memoriale: «Una peste spaventosa a Londra ci fu / Nell’anno milleseicentosessantacinque. / Spazzò via centomila anime, / Eppure io sono ancora qui»[9].
Sostenere che il punto di vista di Defoe coincida del tutto con quello del proprio personaggio sarebbe troppo. Né egli si dissocia però risolutamente da ciascuna opinione di costui. In definitiva, il suo è già il fisiologico atteggiamento del moderno letterato borghese, comunque nutritosi dei valori di quella classe egemone da cui proviene (o nella quale confluisce) e che, se aspira a vivere anche solo in parte di scrittura, deve anzitutto interessare un pubblico quasi per intero costituito da esponenti del ceto dominante e tener quindi conto delle leggi di un mercato di fatto modulato sulle attese di una simile utenza. Ne deriva che un intellettuale di tal specie risulta pressoché condannato a oscillare tra una convalida e una contestazione dell’ideologia borghese che possono entrambe rivelarsi umoristiche o al contrario radicali, ma che tendono in ogni caso a dimostrarsi socialmente – e per alcuni autori insopportabilmente, dunque tragicamente – ininfluenti.
Ciò non toglie che, sia col narratore del Diario dell’anno della peste sia col protagonista del Robinson Crusoe, Defoe abbia saputo ritrarre l’antenato dell’individuo di lì a breve assurto, negli anni compresi tra il 1789 e il 1848, ad autentico mattatore del periodo insurrezionale di una borghesia definitivamente scagliatasi «contro il Passato» per incedere senza più indugi «verso l’Avvenire». Che egli ci abbia insomma descritto un borghese già incline a «dimenticare le sue “basse” origini da “plebeo”» e a rinnegare – «incoscientemente» – il proprio «“vergognoso” passato», ma non ancora pronto a opporsi all’aristocratico. Solo quando avrà l’ardire di farlo, tale figlio del moderno indosserà appunto i panni del rivoluzionario, giacché attribuirà «un valore» imprescindibile allo status del rivale e, per «mettersi al posto del nobile», dapprima sconfesserà il suo «passato borghese» (null’altro ritenendolo, ormai, che «un passato da “plebeo”»), e poi vorrà imporre i propri principi non in quanto derivati di classe, e quindi capisaldi di un’ideologia particolaristica, ma perché li pretenderà cardini di una dottrina universalistica e dell’essenza stessa della civiltà. Detto in altre parole: parametri incontrovertibili dell’umana dignità tout court[10].
Note:
[1] A. Berardinelli, Discorso sul romanzo. Da Cervantes al Novecento, Carocci, Roma, 2016, p. 24.
[2] Ivi, pp. 26-28.
[3] M. Weber, L’etica protestante e lo spirito del capitalismo, Rizzoli, Milano, 2006, pp. 76, 229-230.
[4] D. Defoe, Diario dell’anno della peste, Elliot, Roma, 2014, p. 101.
[5] Ivi, pp. 20, 22, 24, 97, 236.
[6] Ivi, pp. 187, 171, 117, 94, 100-101.
[7] Ivi, pp. 234, 167, 187, 37, 31, 38, 215.
[8] Ivi, pp. 216-217, 237.
[9] Ivi, p. 237.
[10] Si è citato da A. Kojève, La nozione di Autorità, Adelphi, Milano, 2011, pp. 81-82. Rimasto inedito per oltre mezzo secolo, questo saggio del filosofo russo risale al 1942.