Finis musicae. Qualche appunto su Adorno e la dodecafonia – di Andrea Luigi Mazzola
«Le opere d’arte hanno un’esistenza intersoggettiva che è un bene comune… Un’arte che vuol essere arte per gli artisti è un’arte anomala – del resto l’uso originario di un’opera d’arte è quello per cui nella comprensione di essa si viene “innalzati” si attinge l’Erlebnis del “godimento artistico” e perciò si è innalzati in quanto uomini – non per farne qualche cosa, e tanto meno per creare, in base ad essa, altre opere d’arte.»
(Husserl, La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale, trad. it. di E. Filippini, Milano 1961, Appendice XXVII (§ 73), pp. 533 e 534)
La “Filosofia della musica moderna”
Nel 1949 Theodor W. Adorno scrive Filosofia della musica moderna[1], che nella nota introduttiva di Luigi Rognoni dell’edizione italiana viene definita come un’opera che «parla al filosofo in termini musicali e al musicista in termini filosofici». La sua analisi, ben lontana dell’essere una mera estetica musicale, è al contempo lontana dallo scritto musicologico tout-court. Esso è piuttosto un tentativo da parte dell’autore di riflettere su alcuni aspetti urgenti della nostra civiltà, della società, attraverso una penetrazione filosofica dell’oggetto musicale. In questo senso la musica si fa filosofia e la filosofia parla attraverso il linguaggio della musica e, secondo una stringente argomentazione dialettica, il filosofo tenta di penetrare le contraddizioni della società attraverso le mediazioni della riflessione filosofica. La musica, in Adorno, non è lo specchio della società ma, alla pari del concetto hegeliano[2], porta in sé le contraddizioni del mondo che cerca di comprendere e, al contempo, di in-formare. In un suo scritto successivo[3], parlando della sociologia musicale, egli ebbe a dire che «i problemi estetici e sociologici della musica sono intrecciati tra loro indissolubilmente, costitutivamente. […] Nulla vale esteticamente in musica che non sia anche vero socialmente, sia pure come negazione del non vero, e nessun contenuto sociale della musica vale se non si oggettivizza esteticamente»[4].
Questa doppia implicazione di verità – estetica e sociologica – è tuttavia reale solo se considerata dialetticamente, ovvero nella sua mediazione concreta, cioè se in essa raccoglie le esperienze storiche e le sue oggettivazioni estetiche considerate però non dal punto di vista astratto, bensì attraverso il concreto manifestarsi dello spirito oggettivo nel materiale musicale. Nello scritto testé citato Adorno continua affermando che «lo spirito è di natura sociale, è un comportamento umano che per un motivo sociale si è separato dall’immediatezza sociale e si è reso autonomo. La natura della società si impone attraverso di esso nella produzione estetica, sia come natura degli individui che producono di volta in volta, sia come natura dei materiali e delle forme che stanno di fronte al soggetto e con i quali questo si adopera, determinandoli e venendone a sua volta determinato. […] Prive di finestre, senza esser cioè consce della società e comunque senza che questa coscienza le accompagni sempre e necessariamente, le opere musicali, e soprattutto la musica assoluta, presentano la società, tanto più profondamente – si potrebbe pensare – quanto meno guardano ad essa»[5]. Le opere musicali sarebbero dunque, per Adorno, delle vere e proprie figure dello spirito, incarnazioni dello spirito oggettivo di una formazione sociale. In questo senso, Filosofia della musica moderna è uno scritto eminentemente filosofico, paragonabile alla Fenomenologia hegeliana, in cui nelle diverse figure concrete dello spirito la ragione universale di un’epoca si manifesta nella sua incarnazione più piena. Ciò significa che la riflessione sulla musica di Schönberg e quella di Strawisnky non è da intendersi come un’indagine musicologica o come un trattato di estetica musicale: Adorno sta al contrario facendo filosofia pratica, in quanto strettamente intrecciata alla mediazioni del reale: Schönberg è una figura dello spirito oggettivo della civiltà capitalilstica, l’exitus della crisi del reale, di quelle fratture che la lacerano e che ne mostrano le profonde ferite.
L’analisi dialettica della musica di Schönberg, dunque, prende le mosse innanzitutto dalla concettualizzazione (che trova la sua radice nella filosofia hegeliana) del concetto di totalità concreta[6]. Alla luce di essa vengono considerate le diverse sfere del sociale e delle categorie estetico-musicali: è solo perché la società viene intesa dialetticamente come articolata nelle sue diverse determinazioni che l’opera d’arte musicale viene colta nel suo complesso e integrale svolgimento. La categoria di totalità serve ad Adorno per smascherare la falsa totalità conciliante della società borghese, quella «falsa identità di universale e particolare»[7] in cui le determinazioni vengono confuse e separate arbitrariamente e astrattamente, nell’oggetto musicale come nella società. Se nella musica reificata della società capitalistica «il piacere dell’attimo e quello della facciata viariopinta diventano un pretesto per sgravare l’ascoltatore dal pensiero del tutto, sempre presente e necessario in un ascolto esatto»[8], nella società i momenti si scindono per nascondere la trama dei rapporti mediati di potere (sia nella “struttura” dei rapporti di produzione, che nella sovrastruttura ideologica e culturale). Ed è in questo senso, dunque, che la musica diventa espressione spirituale delle contraddizioni della società[9]. Il rapporto tra musica e società non è giustapposizione concettuale tra due sfere differenti; non è il concetto che viene applicato all’oggetto musicale, ma è l’oggetto musicale stesso che reca in sé le determinazioni del concetto. Al pari del concetto, dunque, anche la musica porta in sé le sue antinomie, ed è in base ad esse che se ne può dedurre il suo valore di verità: «la verità o non-verità di Schönberg non si può cogliere discutendo categorie come atonalità e dodecafonia, ma solo cristallizzando concretamente tali categorie nella compagine della musica in sé»[10].
La ricerca di Adorno prende le mosse da alcune constatazioni di carattere generale in cui il fenomeno estetico viene strettamente messo in relazione con con il suo manifestarsi storico: il problema della ricezione delle dissonanze da parte del pubblico rappresenta il tentativo da parte della grande arte colta occidentale di trovare una risposta estetica all’isolamento in cui la storia (e con essa il mercato dell’industria culturale) si apprestava a relegarla. Il problema dell’emancipazione dalla tonalità, com’è noto, ha avuto un ruolo considerevole per lo sviluppo della musica post-romantica. Attraverso due diversi approcci, che condividevano la consapevolezza della crisi delle composizioni tonali, la musica tardo ottocentesca comincia ad emanciparsi dalle strutture armoniche che si sviluppavano a partire dalle relazioni con la tonica, detta anche fondamentale. Da un lato le ricerche coloristiche di Debussy, che avrebbero poi condotto al neo-oggettivismo di compositori come Hindemith e Strawinsky, dall’altro le ricerche espressionistiche della scuola di Vienna, inaugurate da Mahler e da Strauss, che avrebbero condotto alle sperimentazioni di Schönberg e dei suoi allievi, rappresentano gli estremi di quella «antitesi che caratterizza [il] primo mezzo secolo di musica contemporanea»[11].
Consonanza e dissonanza
Schönberg tratta diffusamente del problema del rapporto tra consonanza e dissonanza. Per il compositore austriaco, infatti, l’una e l’altra dipenderebbero dalla maggiore o minore familiarità con le armoniche che costituiscono un suono: l’orecchio umano non allenato tenderebbe a privilegiare le armoniche più vicine alla nota fondamentale (costruite su rapporti che vengono definiti consonanti), mentre le armoniche più lontane non vengono distinte e sono percepite soltanto nel timbro del suono. Schönberg, nel suo Manuale di armonia (pubblicato la prima volta nel 1911) afferma quindi che «le espressioni “consonanza” e “dissonanza”, che indicano un’antitesi, sono errate: dipende solo dalla crescente capacità dell’orecchio di familiarizzarsi anche con gli armonici più lontani, allargando in tal modo il concetto di “suono atto a produrre un effetto d’arte” in modo che vi trovi posto tutto il fenomeno naturale nel suo complesso»[12]. In un suo scritto successivo[13], il compositore precisa ulteriormente che «siamo in grado di affermare, e in gran parte di provare, che tutti i fenomeni musicali possono essere riferiti alla serie degli armonici, cosicché tutto risulta derivare dal rapporto più semplice o più complesso di questa serie»[14]. Schönberg rintraccia dunque le radici naturali del materiale musicale e riconduce ad un fenomeno di familiarità acustica il discrimine tra ciò che viene chiamato consonanza e ciò che viene invece chiamato dissonanza. Tuttavia, nel momento in cui egli enuncia la naturalità del materiale musicale (per cui tutta la musica sarebbe di per sé tonale, in quanto avente a che fare con dei suoni) egli afferma la storicità dell’intervento umano nell’atto compositivo[15]. In questa prospettiva, dunque, la natura e la storia si incontrano nella relazione tra il materiale e il compositore, relazione che ha il suo centro nella costruzione musicale a partire dalla scala temperata[16]. L’artista agisce dunque come ente storico, imponendo alle note un metodo di composizione storicamente determinato, medium tra uomo e natura, io e mondo.
Musica e dialettica sociale
La riflessione adorniana sulla dodecafonia è immanente alla stessa dialettica tra società e categorie del pensiero, e raffigura al livello dello spirito le contraddizioni del presente. Per questo motivo non si può parlare propriamente di un’estetica, come se fosse separata dalla riflessione teoretica. L’oggetto specifico della riflessione musicale, dunque, è il carattere filosofico della musica: la dodecafonia, in quanto segno del tempo e mezzo di conoscenza, è il concetto stesso nella sua determinazione oggettiva. Si viene dunque a creare un rapporto tra musica e società: la musica rappresenterebbe in senso più proprio il processo di alienazione[17] a cui è condannato l’uomo all’interno del progresso del pensiero illuministico-borghese. Com’è noto, il concetto di illuminismo in Adorno non indica un particolare periodo storico, bensì un’attitudine del pensiero, un suo movimento e una sua tensione interna: esso «nel senso più ampio di pensiero in continuo progresso, ha perseguito da sempre l’obiettivo di togliere agli uomini la paura e di renderli padroni. […] Il programma dell’Illuminismo era di liberare il mondo dalla magia»[18]: esso permetterebbe all’uomo di poter dominare, attraverso il pensiero, la ciclicità ineluttabile della natura, per affermare il Sé come Sé, di contro al fato che disintegra ogni individuo. Il tempo della natura scorre in circoli, sempre uguale a se stesso; il suo fine è la conservazione della totalità. Essa è l’assolutamente altro da sé, «qualcosa di estraneo in cui lo spirito non si ritrova»[19]. Il fato della natura prende il sopravvento sull’individualità e rischia di distruggerla: per questo motivo l’uomo cerca di penetrare la natura col sapere. L’uomo si pone di fronte alla natura in termini teleologici, utilitaristici[20] e il suo rapporto con essa è di natura essenzialmente pratica, e affinché la natura (di per sé neutra ed indifferente) possa essere posta al servizio dell’uomo è necessario esercitare su di essa una qualche forma di dominio. Alla natura viene sovra-imposto un ordine che non risiede nelle cose stesse, ma è l’estrinsecazione della relazione teleologica del pensiero con ciò che è altro da sé: i nomi, i simboli, e quindi le relazioni numeriche sono i linguaggi che tentano di spiegare il mondo, il tempo ciclico viene ricondotto alla linearità della relazione causa-effetto e del ragionamento deduttivo: la visione del mondo è matematizzata. La matematizzazione del linguaggio conduce a una vera e propria ridefinizione del concetto stesso di mondo: come nella dialettica hegeliana esposta nella Scienza della Logica, in cui l’indifferenza assoluta – ovvero la riduzione del mondo a rapporti quantitativi, che rendono uguale ciò che è per natura diverso[21] – si rivolgeva dialetticamente nell’essenza, «in cui tutte le determinazione dell’essere son risolute e contenute»[22], la razionalizzazione del mondo viene compiuta e con essa il ritorno del mito (antico archetipo che doveva render conto dell’ineluttabilità del fato)[23]. L’esito di questo processo non può che essere l’estraneazione dello spirito nei confronti del mondo, e dato che l’ordine concettuale riflette l’ordine dei rapporti sociali (subordinazione e dominio), il risultato finale è l’estraneazione dell’uomo nei confronti dell’uomo[24].
La riflessione sulla dodecafonia di Schönberg va dunque considerata in questo quadro teorico: l’arte è nella sua essenza più intima intrinsecamente legata alla storia. Questa sua posizione però è paradossale: da un lato essa è soltanto in quanto prodotto della storia, e solo nella storia trova la sua ragion d’essere, d’altro canto però essa è autoestraniata nella sfera autonoma dell’arte, che di per sé si sconfessa come storica e si rivolta contro se stessa[25]. La sua natura non può che essere antinomica, le opere d’arte rappresentano sempre «quel che esse non sono»[26], ed è attraverso la problematicità dell’arte che Adorno può parlare della problematicità dell’esistenza nella società di massa: l’arte in quanto arte è specchio della società in quanto tale. Per il filosofo francofortese Schönberg porta alle estreme conseguenze l’autoestraneazione del fenomeno artistico: attuando fino in fondo il cammino espressionista, in cui la manifestazione dell’interiorità assumeva un aspetto preminente, egli annuncia l’isolamento dell’artista contemporaneo. Il materiale musicale che si pone di fronte al compositore è il risultato di una sedimentazione storica, esso è «spirito sedimentato, qualcosa di socialmente preformato dalla coscienza stessa dell’uomo: e tale spirito oggettivo […] [ha] la stessa origine del processo sociale […]. Per questo la lotta dialettica del compositore con il materiale è anche lotta con la società»[27]. L’accordo consonante è inautentico solo in rapporto «con lo stadio generale della tecnica»[28], cioè solo in rapporto alla sedimentazione storica del materiale compositivo. Il compositore dodecafonico deve assumere su di sé l’eredità storica del materiale musicale, ma «egli non è un creatore. L’epoca in cui vive e la società non lo delimitano dal di fuori ma proprio nella severa pretesa di esattezza che le sue stesse immagini gli pongono»[29]. Il musicista dodecafonico, dunque, si trova in una perpetua condizione di isolamento, sia nei confronti della musica di consumo che nei confronti del suo pubblico: l’effetto estetico della dissonanza non è la piacevole conciliazione, ma lo choc. E se Schönberg incarna l’espressione dell’artista isolato dal suo tempo, anche il suo metodo compositivo rivela il carattere illuministico della società borghese: la serie dodecafonica, con le sue regole precise[30], si avvicina sempre di più al linguaggio matematizzante che ripropone il mito nella società contemporanea. Per questo la dodecafonia è al contempo massimamente espressiva e al contempo impersonale: il compositore sparisce dietro le regole delle serie dodecafoniche, e il processo compositivo si avvicina sempre di più ad un procedimento numerologico. Le regole della dodecafonia riflettono le astrazioni dell’intelletto illuministico, la concatenazione delle serie si risolvono nel mito[31]. La musica e l’illuminismo sono entrambe determinazioni dialettiche del concetto: «La musica, caduta in balia della dialettica storica, prende parte a questo processo: e la dodecafonia è realmente il suo destino. Essa incatena la musica nel liberarla. Il soggetto impera sulla musica mediante il sistema razionale, ma a questo soccombe»[32]. La dialettica della tecnica dodecafonica è la dialettica della tecnica e del logos illuministico, e in entrambi i casi la risoluzione è la medesima: si piomba nella illibertà totalitaria, e solo in questa illibertà il soggetto è realmente soggetto, ma in quanto soggetto negato; ed ecco che così l’arte, espressione più alta dello spirito, si rovescia nella più grande disumanizzazione, ma «l’inumanità dell’arte deve sopravanzare quella del mondo per amore dell’umano»[33].
Note:
[1] T. W. Adorno, Filosofia della musica moderna, G. Manzoni (trad.), Einaudi, Torino 2002.
[2] «[…] lo Spirito è […] necessariamente questa differenziazione entro sé» (cfr. G. W. F. Hegel, V. Cicero (a cura di), Fenomenologia dello Spirito, Rusconi, Milano 1995, p. 1053.
[3] T. W. Adorno, Introduzione alla sociologia della musica, G. Manzoni (trad.), Einaudi, Torino 2002.
[4] Ibid., p. 240.
[5] Ibid., p. 252.
[6] «Questa considerazione dialettica della totalità, che in apparenza si allontana così nettamente dalla realtà immediata, che in apparenza costruisce la realtà in modo così “non scientifico”, è l’unico modo per cogliere la realtà e riprodurla nel pensiero. La totalità concreta è quindi la categoria autentica della realtà» (cfr. G. Lukács, Storia e coscienza di classe, G. Piana (trad.), Mondadori, Milano 1973, p. 14).
[7] M. Horkheimer – T. W. Adorno, Dialettica dell’illuminismo, R. Solmi (trad.), Einaudi, Torino 2010, p. 127.
[8] T. W. Adorno, Il carattere di feticcio nella musica e il regresso dell’ascolto, in G. Manzoni (a cura di), Dissonanze, Feltrinelli, Milano 1990, p. 13.
[9] A titolo di esempio, si faccia riferimento all’idea musicale di sviluppo (ovvero la seconda sezione della classica forma-sonata, successiva all’esposizione, in cui vengono liberamente elaborati i temi musicali della composizione). Nello specifico, Adorno si riferisce allo sviluppo secondo la tecnica della variazione, ovvero la riproposizione di temi già noti ma in forma mutata, secondo precise regole). Per Adorno essa sarebbe «imitazione del lavoro sociale: […] essa produce incessantemente il nuovo e il potenziamento dei fattori di origine, annientandoli nel loro aspetto quasi naturale, la loro immediatezza. Ma nel loro insieme queste negazioni – come nella teoria del liberalismo di cui d’altronde la prassi sociale non corrispose mai – devono dar luogo a un’affermazione» (cfr. T. W. Adorno, Introduzione alla sociologia della musica, cit., p. 251).
[10] T. W. Adorno, Filosofia della musica moderna, cit., p. 10.
[11] L. Rognoni, La scuola musicale di Vienna. Espressionismo e dodecafonia, Einaudi, Torino 1966, p. 5.
[12] A. Schönberg, Manuale di armonia, il Saggiatore, Milano 2008, p. 24.
[13] Problemi di armonia, conferenza tenuta alla Berliner Akademie nel 1927, poi riveduta a New York nel 1934, riportata in traduzione italiana in L. Rognoni, La scuola musicale di Vienna. Espressionismo e dodecafonia, Einaudi, Torino 1966, pp. 402–418.
[14] Ibid., p. 404
[15] «Il materiale musicale non sta dunque di fronte al compositore nella sua pretesa natura ontologica, bensì come il risultato di differenti dimensioni storiche che si so no sovrapposte, via via, entro un determinato campo di esperienza» (cfr. L. Rognoni, La musicologia filosofica di Adorno, in Fenomenologia della musica radicale, Laterza, Bari 1966, p. 46).
[16] Va tuttavia ricordato che gli sviluppi delle avanguardie musicali metteranno progressivamente in crisi anche la supposta “naturalità” della scala temperata, in quanto con l’avvento della musica elettronica negli anni ‘50 il materiale sonoro a disposizione del musicista si è spinto ancora più in là. Non più le dodici note della scala cromatica bensì il suono puro. Il compositore si trova così davanti alle frequenze pure, alle onde sinusoidali, che può controllare attraverso l’analisi ottica nello spettrogramma. Il compositore, con l’avvento della sintesi sonora, può adesso creare «direttamente col suono: sceglie dapprima il materiale sonoro (frequenze pure) e lo registra su un nastro magnetico, manipolandolo attraverso filtri (che gli permettono di “colare” il suono), mescolandolo polifonicamente, strutturandolo ritmicamente, ecc. e allargando le dimensioni dello spazio sonoro da melodia (orizzontale), armonia (verticale) e ritmo (struttura del tempo) a quelle di timbro, intensità e durata» (cfr. L. Rognoni, Fenomenologia della musica radicale, Laterza, Bari 1966, p. 29). La musica elettronica, dunque, supera le dimensioni musicali tradizionali (melodia, armonia e ritmo) e al loro posto subentrano il timbro, l’intensità e la durata, che sono alla base della progettazione di tutti i sintetizzatori moderni. Tuttavia questo procedimento compositivo ha subito un processo di reificazione, ha perso la sua autonomia ed è tornato al servizio dei canoni tradizionali della composizione musicale: il sintetizzatore è diventato uno strumento accanto a tutti gli altri. Si potrebbe dunque dire che tutto lo sviluppo musicale a partire dalla crisi della forma tonale tardo-romantica sia attraversato da un processo di creazione e reificazione. Per rispondere alla sempre crescente reificazione delle avanguardie musicali, in cui vi rientra il processo compositivo elettronico, si è ricorsi di volta in volta alla ricerca di nuovi linguaggi. Dal suono puro delle forme d’onda si è passati quindi al campionamento e alla tecnica del loop, ma anch’esso si è ritrovato feticizzato e reificato in forme musicali sempre più compromesse con l’industria di consumo. Anche il loop, dunque, ha conosciuto la stessa dialettica “impossibilitante” dei linguaggi artistici precedenti. Di fronte all’industria del consumo nella società massificata sembrerebbe dunque che ogni linguaggio musicale è costretto ad avvizzire nello stesso momento in cui compie il suo ingresso nel mondo sociale: anche il loop, dunque, decade a mera musica di consumo e l’unico modo per adoperarlo ancora è decretarne la morte, come nel decadimento fisico dei nastri dei Disintegration Loops (2002-03) di William Basinski (1958-).
[17] Nella lingua tedesca esistono due parole per indicare ciò che in italiano viene definito come alienazione: Entäusserung ed Entfremdung. Mentre la prima significa letteralmente alienazione nel senso di trasferimento in altri il dominio dei propri beni la seconda invece – contenente la radice fremd che di per sé indica ciò che è straniero – significa straniamento, estraneazione, nel senso di rendere qualcosa come estraneo a sé. (Sull’importanza di questa distinzione si veda M. D’Abbiero, «Alienazione» in Hegel: usi e significati di Entäusserung, Entfremdung, Veräusserung, Edizioni dell’Ateneo, Roma 1970). Come anche fa notare Rognoni (L. Rognoni, La musicologia filosofica di Adorno, cit., pp. 40–41) Adorno sceglie quasi sempre usare Entfremdung e il verbo corrispettivo entfremden per indicare come «la musica, l’arte in generale, che agli inizi del secolo difende la propria posizione soggettiva e rifiuta di lasciarsi industrializzare, cade nell’isolamento, nello straniamento, tende al solipsismo» (Ibid., p. 41.
[18] M. Horkheimer – T. W. Adorno, Dialettica dell’illuminismo, cit., p. 11.
[19] G. W. F. Hegel, V. Verra (a cura di), Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio: Filosofia della natura, UTET, Torino 2002, p. 79.
[20] «L’uomo si rapporta praticamente alla natura, come qualcosa di immediato ed esterno e con ciò stesso sensibile, che quindi a buon diritto anche si comporta come fine rispetto agli oggetti della natura. La considerazione degli oggetti della natura secondo questo rapporto dà luogo al punto di vista teleologico finito» (cfr. G. W. F. Hegel, V. Verra (a cura di), Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio: Filosofia della natura, UTET, Torino 2002, p. 79)
[21] «La pura quantità è l’indifferenza come capace di tute le determinazioni, in modo però che queste le sono estrinseche e ch’essa non ha di per se stessa con loro alcun nesso. L’indifferenza poi, che può essere chiamata indifferenza assoluta, è quella che media sé con sé a semplice unità per mezzo della negazione di tutte le determinatezze dell’essere, della qualità e della quantità […]» (cfr. Hegel, Scienza della logica, A. Moni (trad.), Vol. 1, Laterza, Bari 2004, p. 418).
[22] Ibid., p. 426.
[23] «Identificando in anticipo il mondo matematizzato fino in fondo con la verità, l’illuminismo si crede al sicuro dal ritorno del mito. Esso identifica il pensiero con la matematica. Essa viene, per così dire, emancipata, elevata ad istanza assoluta» (cft. M. Horkheimer – T. W. Adorno, Dialettica dell’illuminismo, cit., p. 32).
[24] «l’estraneazione degli uomini dagli oggetti dominati non è il solo prezzo pagato per il dominio: con la reificazione dello spirito sono stati stregati anche i rapporti interni fra gli uomini, anche quelli di ognuno con se stesso. Il singolo si riduce a un nodo o crocevia di reazioni e comportamenti convenzionali che si attendono praticamente da lui. L’animismo aveva vivificato le cose; l’industrialismo reifica le anime [corsivo mio]. L’apparato economico dota automaticamente, prima ancora della pianificazione totale, le merci dei valori che decidono del comportamento degli uomini. […] [L’uomo] si determina ormai solo come una cosa, come elemento statistico, come success or failure» (cfr. Ibid., pp. 35–36).
[25] «La previsione di Hegel di un possibile perire dell’arte è conforme all’essere-divenuta di questa. Che egli la pensasse come transitoria, e nondimeno l’assegnasse allo spirito assoluto, è in armonia con il carattere ancipite del suo sistema, ma induce a una conseguenza che egli non avrebbe mai tratto: il contenuto dell’arte, il suo assoluto stando alla concezione hegeliana, non è assorbito nella dimensione del vivere e morire di essa. Essa potrebbe avere il proprio contenuto nella sua propria transitorietà. È concepibile, e non è una possibilità meramente astratta, che la grande musica – qualcosa di tardo – sia stata possibile solo in un periodo circoscritto dell’umanità. La rivolta dell’arte contro il mondo storico, teleologicamente implicata dalla sua “posizione nei confronti dell’obiettività”, è diventata la sua rivoluta contro l’arte; ozioso profetizzare se essa sopravviverà. […] Ma arte e opere d’arte, non solo in quanto eteronomamente dipendenti ma anche una volta avviata la costituzione della loro autonomia che ratifica l’assetto sociale di uno spirito basato sulla divisione del lavoro e scisso, sono caduche perché oltre a essere arte sono anche qualcosa di estraneo, contrapposto a quest’ultima. Al loro proprio concetto è mescolato il fermento che lo dissolve» (cfr. T. W. Adorno, F. Desideri – G. Matteucci (a cura di), Teoria estetica, Einaudi, Torino 2009, pp. 6–7).
[26] Ibid., p. 9.
[27] T. W. Adorno, Filosofia della musica moderna, cit., Ibid., p. 39. Vale la pena notare qui lo scarto tra quanto affermato da Schönberg stesso e l’interpretazione di Adorno: per il compositore il materiale musicale rappresenta la neutralità della natura, ed è il processo compositivo che ha, invece, un carattere storico. Per Adorno, invece, il materiale è esso stesso storico. Per Schönberg il compositore è il punto d’incontro tra la natura e la storia, mentre in Adorno assistiamo a una totale autonomia dell’opera d’arte, che viene considerata alla stregua di una concrezione dello spirito. In ciò, probabilmente, risiede l’eccessiva rigidità dialettica della critica adorniana, che finisce per relegare l’opera d’arte nel paradosso della continua autonegazione di se stessa.
[28] Ibid., p. 40.
[29] Ibid., p. 41.
[30] La tecnica di composizione dodecafonica prevede la creazione di una serie, cioè la successione di tutte e dodici le note musicali, fino ad esaurire il materiale cromatico; la serie si distingue dalla scala cromatica dei dodici suoni perché l’ordine della successione delle note viene conferito dal compositore, in relazione alla necessità della composizione. La serie può a sua volta essere suddivisa in microserie più piccole. Melodia e armonia vengono dunque rese indifferenti: «La serie non deve presentarsi solo in forma melodica, ma anche in forma armonica, ed ogni suono della composizione, senza eccezione di sorta, ha il suo posto e il suo valore nella serie o in uno dei derivati; e ciò garantisce la “indifferenza” tra melodia e armonia» (cfr. T. W. Adorno, Filosofia della musica moderna, cit., p. 65).
[31] «Il gioco numerico della dodecafonia e la costrizione che esso opera richiama l’astrologia» (cfr. Ibid., p. 68).
[32] Ibid., p. 69.
[33] Ibid., p. 129.