Rivolta o incatenamento – di Massimo Cappitti

Rivolta o incatenamento – di Massimo Cappitti

9 Luglio 2021 Off di Francesco Biagi

Nel 1934 immediatamente dopo la presa del potere da parte dei nazisti, Levinas, allora giovane studioso di filosofia, allievo di Husserl e Heidegger, vinta la ripugnanza di accostare la filosofia all’hitlerismo, che ne rappresenta la negazione per eccellenza, scrive un breve ma intenso testo dedicato proprio all’esame di questo rapporto, intitolato Alcune riflessioni sulla filosofia dell’hitlerismo[1]. L’anno successivo viene pubblicato un altro testo, Dell’evasione, che chiarisce e completa il precedente. Se il nazismo, come vedremo, incatena gli uomini a sé stessi condannandoli alla loro indiscutibile identità, tuttavia nelle pieghe dell’incatenamento già si intravede la necessità e nello stesso tempo la possibilità di evadere, per sottrarsi così al dispositivo totalitario che piega al suo ordine le diverse singolarità. Levinas non si affida ad «analisi ideologiche» o a «spiegazioni sociologiche»[2]. Non si propone di pervenire a una interpretazione esaustiva e conclusiva dell’hitlerismo ma ricerca le categorie capaci di scandagliare la realtà, al fine di evidenziare una disposizione d’animo diffusa in quel momento storico, caratterizzata dal presentimento dell’imminenza della guerra: dove le parole feroci pronunciate nel presente anticipano la futura ferocia dei fatti. Levinas non viene meno al compito del filosofo critico incalzato dall’urgenza di pensare «la radicalità dell’evento» e dimostrarne «l’incommensurabile gravità» che lo contraddistingue. Nel contempo, però, Levinas invita i filosofi a rifuggire ogni forma di «estetizzazione» dell’evento, che ne ridimensionerebbe la portata.

Il nazismo è l’esito del «male elementale, male attinente all’essere di ciò che è» e affonda le proprie radici nell’essere stesso[3]. C’è dell’essere «che vale e che pesa»[4] e si rivela attraverso la sua brutalità. Eccesso di essere, dunque, e non sua mancanza e limitazione. Si evade, scrive Levinas, «dal fatto stesso che vi è un essere»[5] non dai suoi limiti. Ciò che ai nostri occhi appare come «imprigionamento» e «segregazione» è l’essere come tale da cui uscire indipendentemente dall’approdo che ci si prefigge di raggiungere. Con magistrale finezza Levinas individua l’essenza dell’hitlerismo nel «sentimento acuto di essere incatenati»[6] a sé senza rimedio, rinviati a un’identità oppressiva e opprimente, tanto più irrevocabile perché fondata sul primato biologico del corpo, su «un’unione il cui tragico sapore di definitivo nulla potrebbe alterare»[7]. L’hitlerismo è ostinatamente e ferocemente chiuso nella sua identità spettrale, sprezzante di ogni alterità, destinata a essere cancellata, a eclissarsi nella pervasività del medesimo:

L’hitlerismo a differenza della vergogna e della nausea non è dunque un malessere poiché quest’ultimo non conosce la dinamica propria, ovvero il rifiuto di rimanere, lo sforzo di uscire da una situazione insostenibile, il tentativo di uscire senza sapere dove si va. Allo stesso modo, esso non partecipa della sensibilità moderna, che si forma all’interno di una duplice esperienza, un’esperienza dell’essere in quanto essere inchiodati e un’esperienza della rivolta. In controtendenza rispetto a questa sensibilità esso pratica un’autoaffermazione che è sufficienza, autosufficienza. L’idea di evasione gli è inconcepibile, rivolta odiosa. Si tratta di una civiltà, o piuttosto di un’anticiviltà insediata nella brutalità del fatto di essere, nella brutalità del fatto compiuto[8].

Il nazionalsocialismo annulla le individualità e distrugge la spontaneità, ovvero «la capacità umana di dare inizio con i propri mezzi a qualcosa di nuovo che non si può spiegare con la reazione agli avvenimenti»[9]. L’hitlerismo è nemico della pluralità e dei molteplici che abitano la storia, refrattari a raccogliersi sotto il dominio dell’uno. Ne deriva l’esercizio di un potere illimitato il cui fine è dominare gli uomini in ogni aspetto della loro vita. Tutto ciò che insidia l’ordine è il nemico con cui non è possibile transigere. Il nazismo vieta ogni via di fuga, rimuove ogni apertura che possa costituirsi come premessa e promessa di nuovi mondi. Non è il frutto «di una qualche contingente anomalia della ragione umana», né «l’espressione di un malinteso ideologico accidentale»[10], destinato, perciò, a spegnersi con la stessa velocità con la quale è apparso sulla scena della storia. Pertanto, non è un incidente irripetibile della storia, né l’ultimo sussulto di una società al tramonto. Con l’hitlerismo si affaccia qualcosa di «spaventosamente pericoloso»[11], quasi che Levinas avesse intuito il futuro sterminio, esito del risveglio dei sentimenti elementari che minacciano i principi fondamentali della civiltà europea[12].

Letto da questa prospettiva appare evidente «l’estraneità irriducibile»[13] del fenomeno nazista al pensiero filosofico e politico dell’Occidente. Nessun regime ha condotto con consapevole ferocia un attacco all’umano di tale ampiezza, al punto che nessuno ha potuto sottrarsi alla furia omicida scatenata in nome delle potenze primordiali, che hanno offerto al popolo tedesco «un modello di identificazione ineguagliabile»[14]. Lontano da ogni cedimento allo «psicologismo», Levinas ricorre alle categorie della fenomenologia, ritenute più idonee alla comprensione del nazismo, e in particolare dello stato d’animo dal quale ha tratto la sua forza. Categorie che hanno permesso di delucidare l’inconcepibile e di portare a evidenza ciò che appare latente e non adeguatamente esplicitato[15].

L’«asservimento» rappresenta la novità del regime nazista e si traduce in un «nuovo sentimento dell’esistenza»[16]. Schiacciati da sé stessi e incapaci di rompere con sé stessi, gli uomini, servi volontari plasmati a immagine del regime, si asserviscono alla parola del capo, persuasi in tal modo di obbedire alle leggi profonde della natura o della storia, di cui il führer detiene il senso ultimo. È fuor di dubbio che l’hitlerismo sia una concezione filosofica «rudimentale», caratterizzata dall’affastellarsi di concetti rozzi e violenti, ispirati da una visione razzista della società, espressi da una fraseologia miserabile[17]. Tale concezione si fonda su «una assunzione senza riserve della situazione storica e materiale considerata come una coesione inscindibile di spirito e di corpo, eredità naturale ed eredità culturale»[18]. Nell’esplicitazione di questo rapporto, l’intera tradizione occidentale ha dovuto misurarsi con il divario che sussiste tra la libertà e il fondo opaco dell’esistenza. Si apre così uno scarto incomponibile tra mondo e uomo, chiamato quest’ultimo ad «allentare la stretta della realtà esterna che lo soffoca»[19]. «La valorizzazione del privilegio accordato all’esperienza del corpo biologico»[20] disegna un nuovo modo di essere basato sulla «coincidenza a sé», ossia sulla «glorificazione» dell’incatenamento, ovvero sull’identità «riconquistata e accettata consapevolmente» a cui l’individuo si vincola in modo definitivo. L’uomo, imprigionato dal proprio corpo, si vede rifiutare la possibilità di sfuggire a sé stesso. Incapace di trascendersi, immerso nei legami di sangue si chiude nella pedissequa ripetizione del sempre uguale.

Levinas in più occasioni sottolinea la natura ambivalente del corpo. Esso è il peso che grava sugli uomini, depotenziandone la forza vitale e, insieme, apertura creativa al mondo, luogo dei possibili.

Il corpo non è soltanto un calore unico, un’apertura al mondo sensibile, l’originalità irriducibile della sua presenza all’io; esso è anche opacità – “il meccanismo cieco del nostro corpo” – nudità, aderenza all’io, certamente, ma aderenza irrevocabile alla quale non si sfugge[21].

Emanciparsi dall’orrore dell’essere significa prestare attenzione a non percorrere vie sbagliate che ci riportano sotto il suo dominio: non essere altrimenti, che è pur sempre una declinazione dell’essere, ma altrimenti che essere, rottura radicale della pretesa definitoria ed egemonica dell’essere. Da qui prende forza la necessità della rivolta, rivolta, come precisa Levinas, anti-ontologica. Si chiede Levinas se sia pensabile «un altro regime dell’identità», «in una non coincidenza dell’identico»[22]. Egli fa cenno a una identità sempre revocabile in ogni istante, dove il volto altrui ci richiama a una responsabilità indifferibile, senza scampo, in cui l’io è irreparabilmente in perdita. Tra «la svalutazione platonica del corpo» e «l’esaltazione barbarica del sentimento di identità»[23] può prendere forma un altro regime del corpo: non più inchiodato e irrelato ma esposto e vulnerabile, pronto ad accogliere la sofferenza dell’altro uomo.

 

Note: 

[1] Il testo nell’edizione italiana di Quodlibet è corredato da un’introduzione di Giorgio Agamben e da un lungo saggio di Miguel Abensour intitolato Il male elementale. Inutile dire che sono profondamente debitore a questi due interventi. Il testo è dominato dalla presenza di Heidegger, per altro mai citato: come se Levinas avesse la necessità di fare i conti con il maestro alla luce della sua adesione al nazismo.

[2] M. Abensour in E. Levinas, Alcune riflessioni sulla filosofia dell’hitlerismo, Quodlibet, Macerata, 1996, p. 44. L’intento di Levinas è afferrare «l’hitlerismo a un livello di profondità ineguagliata, di scoprire lo strato sul quale si svilupperanno e si elaboreranno le ideologie e i discorsi più strettamente politici», Ibidem.

[3] M. Abensour, Il male elementale, cit., p. 82.

[4] E. Levinas, Dell’evasione, Cronopio, Napoli, 2008, p. 14.

[5] M. Abensour, Il male elementale, cit., p. 65.

[6] E. Levinas, Dell’evasione, cit., p. 14.

[7] Id., Alcune riflessioni sulla filosofia dell’hitlerismo, cit., p. 31. «Nell’identità dell’io l’identità dell’essere rivela la sua natura di incatenamento poiché essa appare in forma di sofferenza, incitando all’evasione», M. Abensour, Il male elementale, cit., p. 73.

[8] M. Abensour, Il male elementale, cit., p. 72.

[9] H. Arendt, Le origini del totalitarismo, Edizioni di Comunità, Torino, 1996, p. 623.

[10] E. Levinas, Alcune riflessioni sulla filosofia dell’hitlerismo, cit., p. 21.

[11] Ivi, p. 23.

[12] Ibidem.

[13] M. Abensour, Il male elementale, cit., p. 47. Le diverse figure della civiltà europea – dello spirito di libertà –, l’ebraismo, il cristianesimo, il liberalismo e il marxismo, hanno in comune, nonostante la loro diversità il fatto di lavorare per liberare l’uomo dalla inamovibilità del fatto compiuto e dalla tirannia del tempo.

[14] Sulla promessa di sincerità e di autenticità cfr. Abensour, pp. 32-33.

[15] Tra queste categorie si distinguono in modo particolare la vergogna e la colpa su cui Levinas interviene in particolare nello scritto Dell’evasione, cfr. pp. 30-35.

[16] M. Abensour, Il male elementale, cit., p. 47.

[17] E. Levinas, Alcune riflessioni sulla filosofia dell’hitlerismo, cit., p. 23.

[18] G. Agamben, Introduzione, in E. Levinas, Alcune riflessioni sulla filosofia dell’hitlerismo, cit., p. 7.

[19] M. Abensour, Il male elementale, cit., p. 55. Secondo Levinas l’ideale germanico dell’uomo appare come una promessa di sincerità e di autenticità delusa, società che ha perso «il contatto vivente dal suo vero ideale di libertà per accettarne le forme degenerate», Alcune riflessioni sulla filosofia dell’hitlerismo, cit., p. 33.

[20] M. Abensour, Il male elementale, cit., p. 55. Il fatalismo biologico è ciò che ha permesso di sterminare gli ebrei in quanto portatori di vite indegne di essere vissute. Ebrei che, come recitava insistentemente la propaganda hitleriana, continuavano a infettare il corpo altrimenti sano della nazione tedesca.

[21] M. Abensour, Il male elementale, cit., p. 60.

[22] E. Levinas, L’étrangeté à l’être, in Humanisme de l’autre homme, Montpellier, Fata Morgana, 1972, p. 97.

[23] M. Abensour, Il male elementale, cit., p. 87.