Antonio Prete interprete di Leopardi – Massimo Cappitti
Le edizioni Mimesis con la ripubblicazione de Il pensiero poetante di Antonio Prete hanno inaugurato la nuova collana dedicata a Leopardi. Benché siano trascorsi almeno quarant’anni dalla prima edizione, il libro conserva ancora inalterata la sua forza argomentativa. Testo doppiamente fondamentale sia perché ha impresso una svolta, innovandoli, agli studi leopardiani, sia anche perché documenta un passaggio significativo nella ricerca di Antonio Prete. Viene, infatti, approfondendosi lo stile di lavoro intellettuale dell’autore e la sua insofferenza nei confronti delle interpretazioni diffuse. Libera da ogni ossessione identitaria, la riflessione di Antonio Prete si muove lontana dalle discipline consolidate e dai gerghi specialistici, portando alla luce temi che saranno oggetto dell’infaticabile lavorio ermeneutico dell’autore. Da ciò la distanza da ogni tentativo di edificare un sistema, sempre, questo, inadeguato a testimoniare ciò che solo la poesia può accennare: ovvero il «dolore dell’impossibile», che afferra gli individui ogniqualvolta pretendano di attingere l’infinito, che si nega a ogni sua rappresentazione esaustiva. Molteplici questioni, opportunamente evocate da Prete, percorrono il testo. Ad esempio, la critica alla prospettiva «geometrizzante» della ragione illuministica o la riflessione sulla natura del desiderio e la sua dolente incolmabilità o «la meditazione sull’assenza del tempo del piacere», che «si svolge lungo i sentieri dove la “ricordanza” rivela il suo potere: che è il potere di far muovere verso il riconoscimento della poesia, di interrompere catene di sensazioni dolorose, di fare della ripetizione un gioco, insomma di ricondurre il soggetto entro un ordine simbolico». Lo sguardo di Leopardi cade sullo «scarto permanente tra desiderio e piacere determinato». Il poeta, infatti, «si interroga non solo sulla “anticipazione di una fine inevitabile presente in ogni istante”, ma anche sulla illusorietà dell’istante del piacere, sicché pone la radice del piacere in un tempo non presente, dunque nella memoria e nell’attesa. Non in un tempo “reale”, ma in un tempo “illusorio”». Gli uomini sono scissi tra l’esperienza del «negativo», che «incrina» le ragioni dell’ottimismo illuminista, e l’«immaginazione», che si muove entro due ambiti. Da un lato offre al desiderio «immagini di piaceri impossibili», dall’altro si propone «come facile e compensatoria oasi dove è possibile rendere pieno il desiderio». La critica alla modernità, già lucidamente presente in questa fase del pensiero di Leopardi, non si risolve, però, nel ripristino della condizione originaria, nella «quiete arcaica», nell’opposizione tra naturale e razionale. Leopardi non accetta la indiscutibilità di questa scelta. La filosofia si condanna alla propria sterilità, quando abbandona il terreno del «poetico», quando essa dice «la caduta nella civiltà del potere delle illusioni, lo spengimento delle “passioni vive e forti”, la morte delle favole antiche»; soprattutto quando dice la morte di Dio e l’approssimarsi del nulla. «Il pensiero negativo di Leopardi si dispiega in un incessante racconto della crisi, in uno sguardo sull’assenza e sull’abisso». Nel dialogo con Leopardi, dunque, prende forma e forza la ricerca di Prete, che si affina in uno stile di pensiero e in una scrittura che non hanno eguali per bellezza e chiarezza. Poesia e prosa sono «due occhi dello stesso sguardo», colmo di pietas nei confronti del vivente sofferente, irriducibile a ogni consolazione. «Il pensiero leopardiano si svolge […] all’ombra della biblioteca degli antichi e dei moderni, ma mentre interpreta e racconta disloca il sapere verso domande che oggi sentiamo a noi contemporanee, momento del nostro stesso cercare». Ciò spinge alla riflessione, sebbene agli uomini non sia dato il raggiungimento di una «presunta» verità. Non viene, cioè, mai meno la critica «al sapere disciplinato in istituzioni astratte», perché la ragione «dissecca» la vita, la inaridisce. Troppo vedere spegne le illusioni, aprendo la strada al «barbarico». Quando sembra baluginare il senso riposto delle cose, questo non si svela nella forma di una apparizione clamorosa o di una luce che acceca, piuttosto si palesa negli sfaldamenti e negli sconfinamenti, negli interstizi delle cose o nelle interiorità inquiete, che corrono il rischio di smarrirsi nel mondo delle cose. Temi questi ricorrenti nella riflessione e nell’attività poetica di Prete. Pensiero e poesia entrano in risonanza, in una reciproca implicazione. Il pensiero «sfiorato» dalla poesia «attraversa la terra del sapere […] sospingendosi fino alla soglia dell’inconoscibile». La poesia, a sua volta, è chiamata a interrogarsi «sull’esistenza individuale [..] sul dolore del mondo, sulla finitudine come essenza della condizione umana, sul nesso tra il respiro della vita e il respiro dell’universo». Essa ci ricorda la nostra irrilevanza di segmenti insignificanti nella grandiosità infinita dell’universo. Natura indifferente e nello stesso tempo impietosamente feroce.
Occorre, secondo l’autore, tornare all’ «ascolto diretto» della pagina leopardiana al fine di preservare il dialogo ininterrotto con quella «non-opera» che è lo Zibaldone, dove il pensiero nel suo disporsi nel tempo mai si acquieta nella definitività, chiamato a sottoporre a critica anche il passato, quando questo si fissi in ciò che viene tramandato «come assoluto universale e oggettivo». Da ciò l’insofferenza dell’autore nei confronti di coloro che sono incapaci di «dare rilievo al potere conoscitivo della poesia in dialogo con la tensione teoretica del pensiero, continuando in tal modo a separare nei fatti il poeta dal filosofo». Compito della poesia, invece, è redimere le cose dalla loro caducità. Il lontano, l’indefinito, il vago che accompagnano ogni rimembranza sono connotazione proprie del poetico: esse irridono ogni «esercizio di scrittura che voglia porsi come specchio del presente, come racconto di una realtà congelata nel suo apparire, sottratta al flusso di scomposizione temporale e spaziale in cui lo sguardo e la immaginazione del poeta la sottopongono».
Il saggio è percorso da una forte tensione etica che si traduce nel riconoscimento della medesima finitezza che accomuna il vivente. «In virtù di questo sguardo – che è il senso profondo della finitudine – si può tentare tra le rovine di perseguire il disegno di un “verace saper”». Spetta alla poesia custodire il pur labile senso delle cose. Nel tempo della povertà che ci è dato vivere già molto è tentare di sottrarre le cose alla caducità che ne intride l’esistenza. Gli uomini sono stretti tra il tempo del ricordo – il non più – e il tempo dell’attesa – il non ancora -, tra l’irruzione imprevista del novum e il tempo raggelato del passato, chiuso irrevocabilmente su sé stesso. Tornare a leggere Il pensiero poetante comporta la riproposizione della domanda mai esausta sul senso della vita e sulla finitezza immedicabile dei viventi. In questa ineludibile domanda, che continua a riproporsi tenacemente, consiste la preziosa lezione di Prete interprete di Leopardi.