Potenza e possibilità, creazione e caos. Riflessioni per una spiritualità immanente e materialista – di Gabriele Fadini

Potenza e possibilità, creazione e caos. Riflessioni per una spiritualità immanente e materialista – di Gabriele Fadini

27 Agosto 2021 Off di admin

Non ho mai avuto nulla contro la religione, sono semplicemente contro la trascendenza. Rifiuto nella maniera più totale qualsiasi forma di trascendenza[1].

Non c’è migliore esergo di questa citazione tratta dal libro di Antonio Negri Il Ritorno. Quasi un’autobiografia per iniziare ad affrontare il tema che qui ci prefiggiamo: tracciare i possibili aspetti fondamentali di una spiritualità materialista.

Analizzeremo prima il contributo che a questo tema dà, in alcuni suoi scritti, lo stesso Negri per poi aprirci ad una riflessione più ampia che integra e, crediamo di poter sostenere a ragion veduta, mette in luce un orizzonte nuovo invisibile se si rimane confitti al solo panorama elaborato dal filosofo padovano.

Partendo con Negri, non ci riferiamo, ivi, né ad una fenomenologia dei concetti di possibile matrice teologica o religiosa desumibili dal contesto della sua riflessione né alla torsione filosofica che a questi concetti egli conferisce – e pensiamo qui, per fare un paio di esempi su tutti, a quelli di kairòs ed esodo o all’interpretazione della figura biblica di Giobbe e a quella di san Francesco presente in conclusione di Impero. E questo poiché sarebbe completamente fuorviante pensare all’esistenza in nuce di una teologia politica negriana da cui sgorgherebbe, attraverso una qual si voglia forma di secolarizzazione, parte significativa del pensiero del filosofo padovano.

Quando parliamo di spiritualità, dunque, lo facciamo in termini strettamente immanenti e materialistici. Si tratterà, detta in altri termini ancora, di configurare una dimensione spirituale della mente da cui sia del tutto assente la trascendenza come forma di un potere separato che squalifica e “cattura” la storicità e materialità concreta delle vite delle singolarità e che storicamente ha giustificato lo sfruttamento degli individui gli uni nei confronti degli altri[2]. La trascendenza è rifiutata proprio perché metastorica[3], mentre ad interessare Negri dell’esperienza religiosa è l’ascesi:

L’ascesi […] è una costituzione interiorizzata dell’oggetto, mentre il misticismo, al contrario, allontana dall’oggetto, è teologia negativa, teoria dei margini. L’ascesi è uno stato costituente, una trasformazione dei sensi e dell’immaginazione, del corpo e della ragione. Per vivere bene e per costruire il comune è sempre necessaria una qualche forma di ascesi[4].

Per sgombrare il campo dal rischio di intendere l’ascesi all’interno di un discorso meramente volontaristico, è necessario rivolgersi ad un concetto chiave della filosofia negriana che mette in moto tutta una serie di altri concetti ad esso connessi. Stiamo parlando del concetto di produzione, ovvero di creazione. Ma per entrarvi meglio, a nostra volta rivolgiamo l’attenzione proprio ad uno dei temi che costituiscono la serie cui abbiamo accennato, e cioè quello di gioia. Nel tracciare l’idea di gioia, Negri se la prende ancora con il misticismo reo di conferirle un fondamento esclusivamente negativo intendendolo come assenza di dolore[5]. La gioia, di contro, deve essere compresa in termini opposti alla mancanza. Essa deve essere affermata come pienezza positiva d’essere, sovrabbondanza, eccesso, in un’espressione potenza di creare[6]:

È la sola definizione di Dio che conosco: la sovrabbondanza, l’eccesso e la gioia sono le uniche forme con le quali si può intendere Dio[7].

Si potrebbe dire che il discorso di Negri conosce ivi una verticalizzazione immediata nel fare combaciare la gioia della produzione umana con quella di Dio, se non fosse che il Dio che egli ha in mente altro non è che quello totalmente immanente di origine spinoziana:

Dire che siamo in Dio è molto spinoziano. Siamo nella sostanza di Dio, ma la cosa più meravigliosa è che creiamo Dio ogni giorno. Tutto quello che facciamo è una creazione di Dio. Creare nuovo essere, qualcosa che, contrariamente a noi, non morirà mai. Qualsiasi cosa facciamo entra nell’eterno: la bellezza del pensiero di Spinoza è tutta qui: il divino non è fuori di noi. […] Essere spinoziani significa che ci è dato di vivere questa innovazione tramite cui si accede all’eternità[8].

Il modo in cui si accede all’eternità non è affatto la teoria filosofica, ma sono le lotte sociali, i grandi movimenti e la pratica di vita[9]. Ragion per cui la gioia è un dispositivo che lega all’eterno mediante la libera materialità delle lotte, della militanza e dell’amor[10]. Va qui subito sgombrato il campo da un possibile fraintendimento: Negri sta sostenendo che l’accesso all’eterno avviene solo mediante un radicamento nell’immanenza storica, poiché non esiste passaggio all’eterno che sia inscritto in una dimensione al di fuori dell’immanenza. Il piano di immanenza, infatti, è il solo orizzonte possibile a partire da cui pensare e soprattutto sperimentare ontologicamente l’eterno. L’unico modo, perciò, di partecipare all’eterno consiste nel crearlo e la gioia è l’espressione della potenza di questa forza creativa[11].

Determinare il concetto di gioia ci è servito per enucleare alcuni caratteri a propria volta fondamentali del concetto di potenza creatrice da cui eravamo partiti e da cui ora ripartiamo seguendo sempre il filo del ragionamento di quella autentica “cassetta degli attrezzi” che è l’abecedario negriano.

La potenza, intessuta di passione e desiderio, non conosce limiti intrinseci al proprio svilupparsi ma solo limiti estrinseci che si configurano come ostacoli che devono essere di volta in volta superati[12]. Un superamento che avviene all’interno dello svilupparsi del comune come un “costruire con[13]. Detta così, tuttavia, il concetto di potenza risulta ancora troppo indeterminato dal punto di vista materialistico. Per sciogliere questa indeterminatezza è necessario collegare l’idea di potenza con quella di produzione ed andare a vedere come si configura la condizione di questa produzione.

Per comprendere questa condizione, dopo la gioia, facciamo riferimento ad un altro concetto della costellazione di idee che girano attorno al tema della potenza come produzione. Ci riferiamo al già citato concetto di kairòs. Per Negri, kairòs è «il punto temporale esemplare, è l’essere in quanto tempo che si apre e che in ogni istante di questa avventura deve essere inventato. Kairàs è l’istante in cui scocca la freccia dell’essere, il momento dell’apertura, dell’invenzione dell’essere sul bordo del tempo. Noi tutti viviamo in ogni istante questo margine dell’essere che si costruisce. L’istante che crea è lo stesso istante in cui l’essere crea, ma può rimanere bloccato dalla nostra incapacità di accettare questa apertura […]: se non procediamo con l’essere anche l’essere si arresta»[14]. Ed ancora:

Kairòs e costruzione sono una cosa sola: nell’idea di kairòs è immanente il lavoro vivo che costituisce la realtà del mondo. Il lavoro vivo è un kairòs a un tempo corporeo e spirituale che genera un’energia psichica e fisica. Kairòs è produttivo, una produttività che investe la totalità della vita, una bioproduzione, un biolavoro. È il contrario del lavoro morto che è la negatività, ciò che non è e che non può muovere nulla[15].

In precedenza si era visto come la partecipazione alla potenza creativa dell’essere in quanto gioia avvenisse nella militanza e nella lotta. Da quanto emerge ora, possiamo sostenere che, per Negri, nel kairòs come forza (vis) che va avanti[16], la “produzione” di Dio, ovvero dell’essere, avviene mediante quel lavoro vivo che è posto al centro dell’esperienza costituente del comune. Kairòs produce prolungando l’eterno, incrementandolo ed innovandolo sull’orlo della temporalità vissuta, aprendolo all’a-venire. Kairòs è perciò la dismisura della produzione in cui tempo ed eterno si incrociano[17].

Il riferimento di Negri a questo concetto di dismisura va tenuto ben presente perché risulterà centrale nel dipanarsi del nostro argomentare. Ma in cosa consiste la dismisura? Essa altro non è che l’innovazione di kairòs sul bordo dell’a-venire, l’incommensurabile rispetto a tutto ciò che già esiste, rispetto alle precedenti dimensioni dell’essere: ad essere smisurata è sempre la novità della creazione e dell’innovazione[18]. Il campo materiale di produzione dell’essere è, poi, corporeo: l’insieme dei corpi è il mondo, cioè, il campo materiale di produzione dell’essere. È il corpo, infatti, ad essere il portatore della dismisura; è il corpo nella sua carne e passionalità che, in quanto inserito pienamente nel campo materiale dell’eterno, racchiude l’eterno stesso tutto intero nel singolo istante e lo rivivifica ogni volta sperimentandosi come prassi del tempo[19].

La riflessione corporea è dunque, innanzitutto, una dimensione ontologica che attiva l’eterno attraverso l’apertura di questo sull’orlo dell’essere, sul punto dell’a venire[20].

Il corpo, in altri termini, riflette l’eterno mettendolo a contatto con l’a-venire ed è in questo rapporto tra eterno ed a-venire che si apre, come abbiamo già avuto modo di sottolineare, il “gioco” tra dismisura e produzione[21].

Ma non solo, poiché per Negri il corpo è la stessa incarnazione di kairòs e la sua produzione è un atto passionale determinato dall’amore[22]. Nel materialismo l’amore è la potenza ontologica che costruisce quell’essere che non è mai un dato una volta sola ma è qualcosa che va sempre costruito: l’amore ha l’effetto proprio di smisurare la relazione dell’eterno con l’a-venire[23]:

La teologia diventa importante per il pensiero rivoluzionario quando si presume che la carità e l’amore (agape e amor) siano poteri inarrestabili – dove, in altre parole, lo stesso logos, la stessa razionalità è messa a disposizione dell’amore. Da questo punto di vista, l’amor ha un’importanza prima epistemologica e poi soteriologica. Cioè è l’amore che individua quali sono le forze e le potenze che possono sviluppare il comune e, attraverso il comune, realizzare sempre più la carità. Questo potere epistemologico dell’amore si unisce a un potere di liberazione. La liberazione qui emerge come un materialismo completo che sposta il proprio focus dalla soteriologia alla rivoluzione totale[24].

Ed ancora:

[…] una vita costruita sull’amore è una realtà che attinge al processo infinito, un processo che è sempre in movimento e che guadagna energia nella ricchezza delle singolari implicazioni che lo attraversano. Il buono, l’infinito, non sono altro che pura costruzione[25].

Essere materialisti, dunque, significa rompere la quiete dell’essere-stato per aprirlo alla rischiosa produzione incessante di a-venire sia che questa avvenga nel e mediante il lavoro vivo, sia che avvenga nel e mediante l’amore[26]. Quest’ultimo aspetto è particolarmente importante, poiché ci porta direttamente alla conseguenza secondo cui la passione significa, ontologicamente parlando, costruzione. La passione, infatti, costruisce l’essere, costruisce orizzonti, desideri, gioie sempre nuove ed irriducibili al passato[27].

Ma se kairòs è paragonabile a «Cristo che si svuota per creare nuovo essere […]»[28] e l’incarnazione di Cristo è indicazione di quella che può essere allo stesso tempo un’ascesi laica in cui le singolarità e le sensualità si intersecano al meglio al fine di costruire un mondo a-venire[29], la potenza produttiva è essa stessa una passione.

Nell’intervista rilasciata a Judith Revel, Negri sottolinea come vi sia incarnazione ed incarnazione: quella trionfante in cui il corpo sofferente di Gesù è “trascritto” in una dimensione regale ed in cui è completamente assente la potenza della passione della carne trafitta dai chiodi della croce e quella dell’Agnello che assolve l’umanità attraverso il suo sacrificio portando tutti i peccati del mondo[30] che altro non è che l’immagine di un corpo innocente capace di militanza, di lotta e di sacrificio per l’altro, ovvero per tutti. Negri osserva in questa visione dell’incarnazione l’ascetismo come un esercizio spirituale che richiede umiltà, generosità, amore; in breve un’esperienza del divino che si costruisce dall’interno per tutti[31].

Ma non solo, poiché il filosofo padovano confessa di essere ancora più affascinato dal “mito” della “resurrezione della carne”. Seguendo la teologia della liberazione, egli sostiene che se il corpo dovesse essere condotto in cielo nel Giudizio Universale esso sarebbe sacro in tutti i suoi bisogni e sacra sarebbe anche quell’azione di soddisfarli che consiste nella lotta dei poveri contro i ricchi e contro lo sfruttamento dei lavoratori. Ne consegue che, sia da un punto di vista religioso o meno, ciò che conta è l’assoluto valore della lotta per i salari, dell’appropriazione della terra dei latifondi, della lotta contro la proprietà privata e l’organizzazione legale che la difende, al fine di costruire una comunità disposta a difendere la vita e costruire la felicità in questo mondo. Questo discorso deve essere integrato poi da una coloritura interamente marxista: la lotta del lavoro vivo contro il lavoro morto che segna il destino della vittoria dell’uomo sulla morte. Integrazione che disloca il discorso su quel versante completamente ateo che nega l’essere-per-la-morte che la struttura religiosa nella sua dimensione trascendente porta sempre con sé[32]. Le passioni gioiose, al contrario, sono sì esposte a quel rischio del nulla che ogni creazione porta con sé, ma non sono mai strutturate come un essere-nel-niente o un essere-per-il-niente. Esse, infatti, sono passioni che costruendo allontanano il nulla dall’esistenza nell’eterna lotta della vita contro la morte[33]. Negri qui ha in mente quale riferimento fondamentale Spinoza nel suo tendere verso la soglia massimale del pensabile che è la relazione tra il conatus fisico, la cupiditas biopolitica e l’amor[34].

Rispetto a questo aspetto produttivo della potenza che Negri ravvisa in Spinoza[35] e che assume come punto cardine della propria riflessione, Franco Berardi “Bifo” nel suo Futurabilità assume una posizione interpretativa e critica di grande pregnanza.

Va detto che è possibile leggere Futurabilità proprio come una riflessione su temi centrali anche per il pensiero negriano quali l’articolazione tra potenza e impotenza e tra potere e possibilità. Ma restiamo sul punto che ci interessa.

Bifo, infatti, vede l’aspetto teologico del discorso di Negri allorché quest’ultimo interpreta insieme l’essere come rivoluzionario in quanto tale e come caratterizzato da una sovrabbondante necessità. Non riuscendo a riconoscere i limiti costitutivi ad ogni forma di potenza, Negri secondo Berardi ritiene che la liberazione sia una possibilità inscritta nella struttura assoluta del mondo, cioè sia qualcosa di necessario[36].  La “teologia” di Negri consisterebbe in questa convinzione essenziale, nella fede nei confronti del necessario accadere della liberazione, mentre per Bifo l’essere materialisti consiste proprio nell’intendere la liberazione sotto la categoria del possibile, ovvero di una possibilità che può realizzarsi così come non realizzarsi. La potenza nel pensiero del filosofo bolognese è proprio ciò che permette alla possibilità di divenire attualità, ma è tutt’altro che infinita come apparirebbe nel pensiero del filosofo padovano[37].

Va detto che sono moltissimi i luoghi, e ci fermiamo a quelli citati sinora in questo testo, in cui Negri sostiene fortemente la necessità di rompere con qualsiasi forma di teleologismo volto a necessitare processi e tendenze: l’esito della rivoluzione e della liberazione è cioè sempre aperto al rischio del fallimento e dell’insuccesso. Riflettendo sul concetto di esodo, infatti, Negri osserva come il rischio di colui che in esso si mette in marcia è totale e assoluto. È certo indubbio che nell’esodo la capacità produttiva, la capacità di esprimere bisogni, di realizzare desideri viene resa completamente autonoma, ma è altrettanto vero che Negri vede una vicinanza alla teologia (segnatamente ancora alla teologia della liberazione) allorché, proprio in questa radicale incertezza a riguardo dell’esisto della marcia nel deserto, si trova a dover avere bisogno di una forma di “fede” che gli permetta di costruire un modello del comune che lo metta insieme agli altri, per costruire insieme i passaggi che gli permettano di forgiare nuove dimensioni del mondo e dell’amore a-venire[38].

Insomma, se per Franco Berardi l’aspetto teologico (o uno degli aspetti teologici) riscontrabile nella riflessione di Negri consta nella fede nella necessità illimitata della potenza creatrice così come del corpo[39], per Negri stesso la rischiosa necessità della marcia nel deserto trova consonanza con una sorta di fede che gli permette di sviluppare tutte le capacità creative dell’intelligenza per metterle a servizio della moltitudine.

Ma ritorniamo per un attimo al “testo” negriano:

Aprendosi nel biopolitico alla dismisura, il corpo ne è affetto, ma questo essere affetto è esso stesso potenza. Se infatti il corpo è capacità di esprimere affetti, il corpo quando si mostra come «essere affetto» (subire l’effetto) delle relazioni produttive delle singolarità, si trova aumentato nella sua potenza[40].

Per comprendere la portata di questo “essere affetto” come potenza è, ivi, necessario ritornare ancora a Spinoza e alla distinzione tra passioni e azioni che è poi la derivazione dalla copia più originaria passioni tristi e passioni gioiose. Come mostra bene Deleuze nel suo Spinoza. Filosofia pratica, solo quando ci si appropria della potenza dell’affectus si può dire di essere in una condizione di attività nei confronti delle passioni[41]. Ma da qui siamo proiettati al nucleo della teoria spinoziana della potenza.

Ogni potenza è attiva, e in atto. L’identità della potenza e dell’atto si spiega così: ogni potenza è inseparabile da un potere di essere affetti, e questo potere di essere affetti si trova costantemente e necessariamente riempito da delle affezioni che lo effettuano. […] Vale a dire: alla potentia, in quanto essenza, corrisponde una potestas in quanto potere di essere affetti […][42].

L’affetto consiste nel passaggio da un grado di potenza ad un altro grado di potenza: gioia in caso di aumento di potenza, tristezza in caso di diminuzione di potenza[43]. Nella gioia, infatti, la potenza è in espansione, si compone con la potenza dell’altro e si unisce all’oggetto amato. «Per questo, anche quando si suppone costante il potere di essere affetti, qualche cosa della nostra potenza diminuisce o è ostacolata da delle affezioni di gioia. Si dirà che la gioia aumenta la nostra potenza di agire e che la tristezza la diminuisce»[44].

In Moltitudine Hardt e Negri, connettono il tema della potenza spinoziana con quello della “pura potenza” della carne. Secondo loro, infatti, il filosofo olandese «è colui che ha anticipato con maggiore forza la natura mostruosa della moltitudine con la sua concezione della vita come un arazzo, all’interno del quale ogni singola passione contribuisce alla creazione di una comune potenza trasformatrice: dal desiderio all’amore e dalla carne al corpo divino. Per Spinoza, la vita è l’esperienza della ricerca della verità, della perfezione e della gioia di Dio. Spinoza ci mostra come sia possibile, oggi, nella postmodernità, considerare le mostruose metamorfosi della carne non solo come un pericolo, ma anche come una possibilità, la possibilità di creare una società alternativa»[45].

Quando Hardt e Negri parlano di “carne sociale” hanno qui in mente la “carne” per come viene elaborata da Merleau-Ponty che, a propria volta, la definisce un “elemento” nel senso in cui tradizionalmente la filosofia ha usato questa parola per parlare dell’acqua, dell’aria, della terra e del fuoco. La carne, secondo gli autori di Moltitudine, è una forza vitale senza nessuna forma particolare, un essere sociale costantemente volto a realizzare la pienezza della vita. «Da questa prospettiva ontologica, la carne della moltitudine è un’energia elementare che espande continuamente l’essere sociale e che produce un eccesso rispetto a qualsiasi normale misura del valore»[46]. La carne della moltitudine in quanto comune è assolutamente elusiva rispetto all’ordine e al controllo politico poiché non può essere sussunta negli organi gerarchici di un corpo politico unitario. Nel non essere un corpo, dunque, la carne può apparire mostruosa proprio per la forza con cui conduce al caos e all’insicurezza derivanti dal crollo dell’ordine sociale della modernità[47].

La differenza tra le prospettive di Negri e quella di Berardi sembra inconciliabile. Come tenere insieme, infatti, la creazione come apertura al caos e all’incertezza più radicale con quanto Deleuze e Guattari sostengono in un testo fondamentale per Bifo, ovvero l’esergo della conclusione di Che cos’è la filosofia? ove i due affermano la necessità di dare una forma di ordine al caos?[48]

Torniamo per un attimo al tema della carne.

Per Merleau Ponty essa, nel suo rivestire e avvolgere le cose visibili dalle quali è circondata comporta la simultaneità del percepire e del percepi[49], di un interno che diviene il proprio esterno e viceversa. La carne è lo scarto tra l’esperienza di essere contemporaneamente vedente e visibile come instancabile metamorfosi dell’uno nell’altro[50]. Metamorfosi che altro non è che il percorrere il suo intero phylum fino a scoprire nel “chiasmo” quell’esperienza per cui ogni percezione è sottesa ad una contropercezione[51], che scopre nel vedente la propria visibilità virtuale che produce il comune come apertura a ciò che è “altro-da-noi” e che pur ci costituisce come il nostro rovescio[52]. Il chiasmo è, dunque, nel vedere il sentirsi veduti, il riflettersi ed esprimersi della carne del mio corpo sulla carne del mondo da cui è avvolta[53]. In questo senso, la carne è la pregnanza di possibilità risiedente nel percepi tramite cui è possibile comprendere il percepire; è il visibile assoluto del mondo come pura virtualità tramite cui il corpo, veduto e vedente, fonda e annuncia la veduta che ne ha l’altro.

Questo approfondimento su Merleau Ponty, ci permette di dare un altro significato alla potenza dell’affetto di cui parla Negri in Kairòs, Alma Venus, Multitudo. In Che cos’è la filosofia? infatti Deleuze e Guattari parlano della carne in relazione alla sensazione e lo fanno proprio riprendendo quanto sostiene Merleau Ponty:

L’essere della sensazione, il blocco del percetto e dell’affetto apparirà come l’unità o la reversibilità del senziente e del sentito, il loro intimo intreccio, come le mani che si stringono: è la carne che si libera contemporaneamente dal corpo vissuto [dandoci] l’essere della sensazione […]. Carne del mondo e carne del corpo come correlati che si scambiano, coincidenza totale[54].

I due filosofi francesi, tuttavia, vanno oltre domandandosi se la carne sia in grado di “reggere” il percetto e l’affetto, se sia in grado di costituire l’essere di sensazione sostenendosi da sé o non sia piuttosto essa a dover essere sostenuta e a dover passare in altre potenze di vita. Ci vuole, si rispondono i due, un secondo elemento che faccia tenere la carne, come un termometro del divenire per non farla scivolare nella confusione e nel caos. Questo secondo elemento è la casa di cui fanno parte i lembi che, in quanto armatura delle carne, sono il primo piano e lo sfondo, i lembi orizzontali, verticali; i pavimenti, le porte e le finestre e gli specchi che danno alla sensazione il potere di sostenersi da sola in quelle cornici autonome che sono le facce del blocco della sensazione[55].

Ma le case stesse così si aprono sul caos, così come la carne si apre sullo scorticato[56]. La lotta contro il caos si rivela sempre avere un’affinità con il nemico: è lo stesso caos libero e ventoso, infatti, ad essere fatto passare nei tagli degli artisti che fendono gli ombrelli che gli uomini si fabbricano componendovi nel verso interno le proprie convinzioni e le proprie opinioni[57]. Solo addentrandosi nel caos è possibile vincere il caos[58]. Restando all’esempio dell’arte, Deleuze e Guattari sostengono che essa non è il caos ma una composizione del caos che ne dà la visione o la sensazione, cosicché essa costituisca un caosmos ovvero un caos composito e non previsto o determinato[59].

Quello che qui ci importa più di tutto, è sottolineare come:

La sensazione è dunque su un altro piano rispetto ai meccanismi, ai dinamismi e alle finalità: è in un piano di composizione, in cui la sensazione si forma contraendo ciò che la compone e componendosi con altre sensazioni che sono a loro volta contratte da essa. La sensazione è contemplazione pura, perché è attraverso la contemplazione che si contrae, autocontemplandosi nell’atto stesso di contemplare gli elementi da cui procede. Contemplare è creare, mistero della creazione passiva, sensazione. La sensazione riempie il piano di composizione e si riempie di sé stessa riempiendosi di ciò che contempla: è enjoyment e self-enjoyment[60].

Se per Negri la creazione era frutto di un’espansione, una produzione a partire dal caos e del caos, per Deleuze e Guattari la creazione avviene a livello della sensibilità come una contrazione. Detta in altri termini, se per Negri la creazione è sempre pulsione, spinta in avanti, per i due pensatori francesi essa è un riempimento a livello della sensazione in seguito ad un movimento di sottrazione.

Ora, come scrive Franco Berardi commentando Caosmosi di Guattari, il problema che per lo psicoanalista francese giace in quello che viene definito “nuovo paradigma estetico” è il mutamento dell’epidermide, della zona di contatto tra corpi, della sensibilità. L’estetica infatti è prima di tutto, sottolinea Bifo, scienza della sensibilità, del contatto di epidermidi[61] e quindi ha molto a che fare con la psicopatologia e la psicoterapia del contatto[62].

In Caosmosi, Guattari è ben consapevole del fatto che «la nostra sopravvivenza sulla terra è minacciata non solo dalla degradazione ambientale ma anche dalla disintegrazione del tessuto di solidarietà sociale e dei modi di vita psichici che necessitano quindi di una reinvenzione complessiva»[63]. E, più avanti, sostiene che la potenza estetica del sentire occupa sempre di più una posizione di privilegio in seno ai concatenamenti collettivi di enunciazione della nostra epoca[64]. Questo comporta che sono gli affetti che agglomerano in una stessa presa esistenziale il soggetto e l’oggetto, l’io e l’altro, il materiale e l’incorporeo, il prima e il dopo. L’affetto concerne non la rappresentazione o la discorsività, ma l’esistenza: è mediante l’affetto, infatti, che «non sono più come prima, sono trascinato in un divenire altro, condotto al di là dei miei Territori esistenziali abituali»[65].

Siamo così giunti al punto decisivo.

La possibile forma di spiritualità materialista ed immanente fondata sulla forza ontologica creatrice dell’essere di cui parla Antonio Negri si compone con quanto vengono sostenendo Franco Berardi e Deleuze e Guattari a proposito della carne e degli affetti. Bifo, infatti, vede il limite del discorso di Negri (e, nel caso, Hardt) quando esso si fa pensiero dell’infinitezza e della pura attività. Abbiamo visto tuttavia come due aspetti del pensiero del filosofo padovano, ovvero quello di affetto e di carne, siano suscettibili di una torsione interpretativa diversa rispetto a quella dataci dal loro autore.

Carne e affetti, infatti, sono i due nomi dunque che compongono una possibile spiritualità materialista – la carne come luogo di contatto, e l’affetto come ciò che produce nell’essere riempito.

Deleuze e Guattari richiamano per prima cosa alla necessaria finitudine del rapporto al caos, salvo poi mostrare come per combattere il caos sia necessario avere un rapporto con esso. E lo stesso accade alla carne nell’essere segnata dalla finitezza del sentirsi percepito che si apre alla possibilità del poter percepire. Ma non si dà infinitezza poiché, come sostiene Bifo con assoluta lucidità in Fenomenologia della Fine, per esempio a causa della presenza del virus Covid-19 viviamo in un tempo che ha di fatto reso impossibile quell’elemento fondamentalmente dell’incontro materialista che è, il contatto reciproco a livello dell’epidermide[66]. E in questo interviene il concetto di affetto che non è solo gradiente di affermazione o diminuzione di potenza, ma apertura ad un incontro possibile e mai necessario tra soggettività che si incrociano nel loro essere flusso di soggettivazione. Questa è la materialità dell’affetto: non l’azione di un soggetto già costituito su un altro a sua volta già costituito, ma l’incrocio di diversi divenire-soggetto che agiscono sì come moltiplicatori di concatenamenti ma a partire da un contrarsi e non solo da un prodursi.

Ne La parabola del seminatore, Octavia Butler in un futuro distopico che per alcune cose tuttavia assomiglia al nostro presente (catastrofe ecologica, disoccupazione, epidemie, follia e assassini di massa etc.), tiene assieme nella protagonista del romanzo affetta da una acuta forma di iperempatia l’assoluta vulnerabilità al dolore altrui con la forza di creare una comunità fondata su una concezione di Dio immanente completamente offerentesi all’uomo per essere da lui plasmato – il Seme della terra. Il Dio del Seme della terra è cambiamento continuo, caos, potenza infinita, ed è ciò che spinge la comitiva che attraversa il romanzo a stare unita nella lotta di un lungo viaggio senza che, però, vi sia garanzia di riuscita nel progetto che la anima. L’iperempatia di Lauren Olamina è dunque espressione della stessa duplicità di Dio insieme presente dappertutto e bisognoso di essere plasmato da tutti: per un verso potenza in grado di percepire il dolore altrui e per altro verso limite che trasforma questa potenza in impossibilità di agire e quindi necessità dell’aiuto degli altri. Più si è empatici più si ha bisogno dell’altro, questa la lezione di Octavia Butler che potremmo ritradurre, alla luce del percorso tracciato sin qui, nell’idea secondo cui non esiste potenza che allo stesso tempo non sperimenti una finitudine che non la limita ma le dà la sola configurazione possibile.

 

Note:

[1]A. Negri, Il Ritorno. Quasi un’autobiografia, Rizzoli, Milano 2003, pp. 190-191.

[2] Cfr A. Negri/J. Revel, Trascendence, Spirituality, Practise, Immanence: a conversation with Antonio Negri, in “Rethinking Marxism,. Journal of Economis, Culture and Society”, 28, 2016, p. 470.

[3] Cf A.Negri, Il Ritorno. Quasi un’autobiografia, cit. p. 160.

[4] Ivi, p. 191.

[5] Cf Ivi, p. 97.

[6] Cf Ibidem.

[7] Cf Ivi, pp. 97-98.

[8] Ivi, pp. 53-54.

[9] Cf. Ivi, p. 54.

[10] Cf Ivi, p. 51.

[11] Cf Ivi, p. 98.

[12] Cf Ivi, p. 113.

[13] Cf Ivi, p. 114.

[14] Ivi, pp. 123-124.

[15] Ivi, pp. 125-126.

[16] Cf A. Negri, Kairòs Alma Venus, Multitudo. Nove lezioni impartite a me stesso, Manifestolibri, Roma 2000, p. 37.

 

[17] Cf Ivi, pp. 44-46.

[18] Cf Ivi, pp. 49-50.

[19] Cf Ivi, p. 55.

[20] Ivi, pp. 55-56.

[21] Cf Ivi, p. 56.

[22] Cf Ivi p. 57.

[23] Cf Ivi, p. 105.

[24] G. Fadini/ A. Negri, Materialism and Theology: A Conversation, in Rethinking Marxism. Journal ournal of Economis, Culture and Society”, 33, 2008 p. 666.

[25] Ivi, p. 668.

[26] Cf A. Negri, Kairòs Alma Venus, Multitudo, cit. p. 108.

[27] Cf A. Negri, Il Ritorno, cit. p. 178.

[28] Cf A. Negri, Kairòs Alma Venus, Multitudo, cit. p. 34. Per un approfondimento di questo tema, si veda G. Fadini/ A. Negri, Materilism and Theology: A Conversation cit. pp. 667-668.

[29] Cf A. Negri, Il Ritorno, cit. p.  p. 191.

[30] Cf A. Negri/J. Revel, Trascendence, Spirituality, Practise, Immanence, cit. p. 475.

[31] Cf Ibidem.

[32] Cf Ididem.

[33] Cf Ivi, p. 477.

[34] Cf Ibidem, p. 477.

[35] Su questi temi si veda il volume A. Negri, Spinoza, DeriveApprodi, Roma 2006, passim.

[36] Cf F. Berardi, Futurabilità, Produzioni Nero, Roma 2018, p. 29

[37] Cf Ibidem.

[38] Cf Intervista G. Fadini/ A. Negri, Materialism and Theology: A Conversation, cit. pp. 669-671. Sul tema dell’esodo sia permesso, ivi, il rimando al mio Ontological Resistance, A meditation on exodus and power, in  Angelaki. Journal of Theoretical Humanities, 12, 2007, pp. 61-71.

[39] Cf F. Berardi, Futurabilità, cit. p. 31.

[40] Cf A. Negri, Kairòs Alma Venus, Multitudo, cit. p. 97.

[41] Cf. G. Deleuze, Spinoza Filosofia pratica, Guerini e Associati, Milano 1992, p. 62.

[42] Ivi, pp. 121-122.

[43] Cf Deleuze, Cosa può un corpo? Lezioni su Spinoza, Ombre Corte, Verona 2010, pp. 117-118.

[44] Deleuze, Spinoza Filosofia pratica, cit. p. 126.

[45]  M. Hardt/ A. Negri, Moltitudine. Guerra e democrazia nel nuovo ordine mondiale, Rizzoli, Milano 2004, pp. 226-227.

[46] Ivi, pp. 224-225.

[47] Cf Ivi, p. 225.

[48] Cf G. Deleuze/ F. Guattari, Che cos’è la filosofia? Einaudi, Torino 2002, p. 203.

[49] Cf M. Merleau Ponty, Il visibile e l’invisibile, Bompiani, Milano 1969, p. 146.

[50] Cf Ivi, pp. 171-174.

[51] Cf Ivi, p. 298.

[52] Cf Ivi, pp. 190-191.

[53] Cf Ivi, pp. 279-282.

[54] G. Deleuze/ F. Guattari, Che cos’è la filosofia? cit. p. 178.

[55] Cf Ivi, p. 180.

[56] Cf Ivi, p. 206.

[57] Cf Ivi, pp. 205-206.

[58] Cf Ivi, p. 204.

[59] Cf Ivi, p. 207.

[60] Ivi, pp. 215-216.

[61] Cf F. Berardi, Felix. Narrazione del mio incontro con Guattari: cartografia visionaria del tempo che viene, Luca Sossella, Bologna 2006, pp. 44-45.

[62] Cf Ivi, p. 48.

[63] F. Guattari, Caosmosi, Costan & Nolan, Genova, 2007, p. 37.

[64] Cf Ivi, p. 109.

[65] Cf Ivi, p. 101.

[66] Cf F. Berardi, Fenomenologia della fine, Produzioni Nero, 2020, passim.