PRIMA VIENE LO SPIRITO – di MARCELLO TARÌ
Un fuoco cammina davanti a lui
e brucia tutt’intorno i suoi nemici
Le sue folgori rischiarano il mondo:
vede e trema la terra.
Salmo 97
Che noi viviamo nel punto estremo della secolarizzazione, anzi nel suo dopo, è un’idea ampiamente radicata. Si descrivono abitualmente le nostre società come «post-secolari», una non-definizione che si va ad aggiungere alla lunga serie di post-qualcosa a cui siamo stati abituati da qualche decennio.
Alcuni studiosi indicano con il termine «secolarizzazione» il processo cominciato in Occidente con il dispiegamento del giudeo-cristianesimo, nel senso di una demitizzante valorizzazione del mondo della creazione, mentre altri si spingono fino a vedere nello stesso cristianesimo la macchina dell’autodecostruzione del monoteismo in un ateismo. Di norma, però, con quel termine intendiamo il processo storico iniziato nel XVI secolo con l’assorbimento e la «traduzione» di beni, prerogative e categorie teologiche e religiose nelle strutture di governo temporali. Potremmo invece con «secolarismo» designare il movimento ideologico, pienamente moderno, che ha perseguito l’evacuazione della trascendenza a favore di una mondanizzazione e immanentizzazione più o meno assoluta. Quindi, noi dovremmo essere nel tempo di un avvenuto compimento del processo secolaristico a livello storico, giuridico e ideologico che, a parere di molti, imporrebbe che la sola possibilità di una spiritualità umana consista nella sua integrale aderenza al secolo, cioè in una spiritualità mondana.
È importante, tuttavia, ricordare che fu il monachesimo ad impostare una distinzione tra coloro che vivono nel secolo, da non intendere in senso necessariamente negativo, e coloro che invece rispondono a una «regola di vita» che non è del mondo. Nel tempo, però, quella distinzione diventò essenzialmente un fatto interno al diritto canonico diluendo in questo modo il suo significato «spirituale». Non troppo stranamente, con l’età moderna il fatto giuridico cambiò di campo e per secolarizzazione si cominciò ad intendere l’alienazione dei beni della chiesa a favore degli stati e poi, un po’ più tardi, l’indebolimento della credenza religiosa, una sempre maggiore rarefazione della partecipazione al culto, quindi la diffusione nelle società cosiddette avanzate di una forma di vita compiutamente mondanizzata. Il secolarismo difatti, rinviando ad un’azione propriamente ideologica, interviene direttamente nello spazio delle anime, nella «vita psichica». Credo che l’incontro fatale tra l’una e l’altra dimensione, storica e ideologica, possa essere colto in una lettera che Ludwig Feuerbach inviò a Hegel nel 1828, in cui reclamava la realizzazione e la secolarizzazione (o mondanizzazione) dell’idea. Nel tedesco della missiva le due operazioni si dicono in maniera quasi identica, Verwirklichung e Verweltlichung, e pare evidente che per Feuerbach realizzazione e secolarizzazione dovessero essere una sola operazione. Infatti, proseguiva, questa realizzazione non sarebbe stata altro che la traduzione mondana dell’Incarnazione[1].
Il nostro sarebbe allora il tempo che potremmo chiamare della «secolarizzazione reale», nel senso che si dovrebbe vivere in questo dopo come fosse la realizzazione storica di quella ideologia in cui tutto viene riassorbito nel secolo, Dio è un’ipotetica idea filosofica, quello religioso è uno stile di vita estetico e la vita ha un valore essenzialmente di mercato. L’avvertenza, che penso debba accompagnare questo tipo di riflessioni, è che non bisogna accettare questa «realizzazione» come fosse una verità ultima e credere che al di là di essa vi sia giusto il nulla. Quella «realizzazione» non si identifica con la «realtà», vi è sempre un fuori della realizzazione storica e un altro dal mondano che è lo spirituale, le quali sono dimensioni che insieme fanno la realtà. È quando ne manca una che la realtà si fa opaca, illeggibile. Era già un avvertimento di Wittgenstein che «il senso del mondo dev’essere fuori di esso»[2], il che non significa certamente che non ha niente a che fare con esso. Il regno dei cieli è un fuori, poiché non è di questo mondo, eppure cresce nel mondo, da qui la paradossale manifestazione della forma di vita cristiana: «Vivono sulla terra, ma hanno la loro cittadinanza in cielo» (Lettera a Diogneto).
La realizzazione del secolo implica comunque la trasformazione dell’oggetto in qualcos’altro; come indica il termine «post-secolare», si tratta di un dopo della secolarizzazione che è una situazione per la quale, apparentemente, non disponiamo di un nome proprio. Il prefisso post che viene utilizzato così sovente non serve affatto a una maggiore definizione dei fenomeni, ma esprime piuttosto un’insufficienza di sapere nei loro confronti: siamo in un dopo, ma non sappiamo nominare dove esattamente ci troviamo. Nell’epoca del cosiddetto capitalismo cognitivo, la materia più scarsa sembra essere proprio la conoscenza e tanto più la sapienza su di sé e sullo stato del mondo. Volendo leggere l’epoca a contropelo, un modo alternativo di accostarla potrebbe essere quello apofatico, cioè procedendo non per definizioni certe, per verità razionali, ma negativamente e accogliendo la dimensione di oscurità e di mistero che vi è nella storia e nella mia stessa vita. L’apofatismo, infatti, suggerisce una specifica forma di spiritualità nella quale, anche se indicibile, agisce un principio trascendente. Padre David Maria Turoldo, ad esempio, scriveva che «tutte le cose decisive avvengono di notte e nel deserto (…) L’amore vero, l’amore profondo, il misterioso amore non ha parole (…) Dio, tu sei nel silenzio, tu sei lo stesso silenzio. E invece noi parliamo, parliamo»[3]. Nel nostro mercato delle chiacchiere, come per tutto ciò che è decisivo, il silenzio contemplativo, il «deserto», viene rappresentato come cosa inutile, improduttiva e soprattutto impossibile. Ma, anche qui, la rappresentazione non equivale alla realtà. In generale: la credenza che la rappresentazione dominante sia la realtà è una forma idolatrica di rapporto al mondo.
Uno tra gli effetti della secolarizzazione reale consiste nel fatto che il sostantivo «spiritualità» sia divenuto una parola-baule così ampia e vaga da renderne ardua una definizione chiara e condivisa e, coerentemente con l’epoca, si dovrebbe piuttosto parlare di post-spiritualità. D’altra parte, se vi è oggi qualcosa di socialmente condiviso è la confusione su qualsiasi cosa, scelte politiche e religiose, modi di pensare e stili di vita. Si potrebbe anzi dire che la confusione stessa sia diventata un metodo di pensiero e uno stile di vita che comprende ogni aspetto dell’esistenza, da quelli più intimi a quelli più pubblici e in tanti ne fanno una rivendicazione, una sorta di diritto individuale alla confusione da riconoscere ex lege. Ogni volta che ci troviamo davanti al prefisso post, possiamo essere certi che sta ad indicare una qualche babilonia nella parola che lo segue e la confusione generalizzata è uno dei segni dal quale si può riconoscere il fondo nichilistico del nostro tempo. Se tutto viene gettato nella confusione e diviene illeggibile l’effetto, voluto, sulla persona e i popoli è quello di non riuscire a pensare lucidamente ed agire liberamente. In questo senso è logico che la politica e la religione siano tra le vittime principali del nichilismo dominante. Il momento presente ne è particolarmente rivelatore e sto pensando evidentemente agli effetti «ideologici» attivatisi con la pandemia. Ad esempio, restando nei pressi del nostro tema, un pensatore come Giorgio Agamben, a cui pure dobbiamo una delle letture filosofiche più innovative della teologia paolina, ha potuto dire in questo frangente che la medicina sia divenuta la sola vera religione del nostro tempo, con i virologi in veste di teologi e le tecniche profilattiche come suo apparato cultuale[4]. Ricalcando alcuni motivi di un breve scritto di Walter Benjamin sullo spirito del capitalismo, Agamben sostiene che la scienza medica abbia sostituito, in quanto religione, tanto quel sistema che il cristianesimo. Mentre il capitalismo, secondo il filosofo italiano, tende ad allearsi in maniera subalterna con la scienza, la chiesa viene giudicata apostatica con gli stessi termini in voga presso gli ultrà reazionari che combattono l’attuale pontefice («La Chiesa ha rinnegato puramente e semplicemente i suoi principi»). A me sembra che, invece di fornire strumenti per chiarire il momento presente, questo modo di porre le cose partecipi della sua confusione e si inserisca pienamente nel paradigma del post-secolare, del post-religioso e della cosiddetta post-verità. Che il sacro sia sparso per ogni dove, quindi anche nella medicina, non è certo una gran novità, che poi sia finita la cristianità come sistema regolare di vita, ma non il cristianesimo evidentemente, è una constatazione fatta propria dalla chiesa stessa la quale, anzi, vi intravede una possibilità, ma parlare di religione e spiritualità in una maniera così retorica e quasi caricaturale ha come risultato di svuotarle di significato, rendendole dei significanti vuoti riempibili a seconda del momento e delle personali idiosincrasie, in definitiva neutralizzandole. Allo stesso modo, infatti, nell’ambito delle discussioni sulla pandemia e dintorni abbiamo assistito alla triste banalizzazione di tutto l’apparato di immagini e parole concernenti la persecuzione e lo sterminio nazifascista degli ebrei e al fatto che i neofascisti manifestino per la «libertà» e contro la «dittatura». Confusione, illeggibilità e neutralizzazione sono tra le caratteristiche maggiori del nostro tempo con le quali, pur se a malavoglia, dobbiamo fare i conti quotidianamente.
Termini come post-secolare, post-spirituale o post-religioso stanno dunque a indicare in primo luogo un’incertezza e a volte uno stato di caos al proposito del contenuto degli aggettivi. Siamo in un’epoca che fa un uso abnorme di immagini funzionanti come strizzatine d’occhio, che rifiuta le tradizionali definizioni e categorie ma che è incapace di nominare i fenomeni che l’attraversano. Se fin dal Genesi ricevere e dare dei nomi vuol dire operare dei tagli di significato nel caos, una nuova fase dell’epoca potrà probabilmente cominciare solo quando, dopo il deserto, affiorando dal silenzio, si ricomincerà a dare o a restituire i nomi alle cose, quelle materiali e quelle spirituali. Per questo c’è sempre bisogno di profeti.
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Spiritualità, ovviamente, si riferisce in modo diretto a un’esperienza dello spirito. Un termine, quest’ultimo, che viene spesso usato per nominare l’atmosfera, la Stimmung che caratterizza un’epoca, si pensi a modi di dire comuni come «lo spirito degli anni ‘60». Si tratta in effetti di un modo secolarizzato di parlare dello spirito, inaugurato dal romanticismo. Di spiritualità in senso proprio si parla però quando si vuole indicare la pratica soggettiva, tendenzialmente abituale, di una dimensione trascendente, una frequentazione dello spirito si potrebbe dire. Secondo l’utile definizione che ne dà H. U. von Balthasar per spiritualità «si intende quindi il coordinamento abituale degli atti di vita di un uomo, derivato dai suoi oggettivi giudizi ultimi e decisioni fondamentali»[5]. Dunque, ad una spiritualità corrisponde un principio che la orienta e che imprime una certa forma alla vita. Se passandole in rassegna tenessimo presente questa definizione, credo ci si renderebbe facilmente conto di quanto poche delle post-spiritualità contemporanee possano rientrarvi.
Per comprendere oggi lo «spirito degli anni ‘60» dobbiamo riportare alla mente i suoni di Woodstock, le immagini del Maggio parigino, i versi di Allen Ginsberg, gli astronauti che passeggiano sulla luna e possiamo ammirarli e studiarli, ma dubito si possa in tal modo farne per noi stessi una spiritualità, in compenso se ne può fare una moda. Non solo perché quelle immagini, parole e suoni non contengono qualcosa che possa veramente fungere da «giudizio ultimo» o «decisione fondamentale», ma poiché una spiritualità non vive immersa nel passato, bensì designa appunto l’articolazione di un principio trascendente all’interno di un modo di vivere nella realtà, indica cioè una dimensione spirituale che partecipa della forma che si dà alla propria vita. Sono il passato e il futuro che pulsano dentro di essa, non il contrario. Vi possono essere allora, e vi sono, delle mode spirituali e diversi autori non hanno mancato di notare come il postmoderno si distingua per essere un’epoca estetica costituita dal gioco della citazione di citazioni. Si può e si dovrebbe, per contro, fare appello al passato dal di dentro di una tradizione, la quale significa trasmettere per «andare oltre» diceva Giovanni Vannucci[6], e attingervi la forza e l’ispirazione per tracciare un cammino nel presente. Il mio spirito non è lo schiavo del tempo bensì ciò attraverso il quale posso comprenderlo in ciascuna delle sue direzioni, ma è sempre il qui e ora il tempo in cui si determina la decisione di esistere in un certo modo.
Posso infatti oggi contemplare lo stesso Spirito che contemplavano nel 1200, rimanere sotto la guida del medesimo Spirito che ardeva inconsumabile nel roveto sul monte Oreb e che faceva tremare il cenacolo degli apostoli prima di investirli con lingue di fuoco, ma senza che ciò significhi dover mettermi a vivere come un uomo medievale o un nomade dell’antichità. Tutto dipende da cosa si intende con quella parola: Spirito. Nelle Scritture è soffio vitale, libertà, verità, sapienza e amore, scuotimento dalle fondamenta e guida di discernimento nella crisi. È lo Spirito che spira creativamente nella storia senza però mai identificarsi con essa, per questo possiamo farne esperienza in ogni tempo. Quindi una spiritualità, per quanto non possa che essere un’esperienza vivente nel mondo e dentro la storia, non può mai costitutivamente coincidere completamente col secolo. Se dovessi enumerare le caratteristiche di una vera spiritualità direi allora che la prima sarebbe senza dubbio la sua «inattualità». Così come, analogicamente, la soggettività che vi si addentra si trova a vivere uno scarto tra l’io esistenziale e il sé essenziale ed in quell’apertura, nello sprofondo a cui la spiritualità apre le porte, può fare esperienza che «l’ultimo soggetto – nel fondo della nostra soggettività – è Lui [lo Spirito]»[7]. È ciò che scoprì sant’Agostino: «più dentro in me della mia parte più interna e più alto della mia parte più alta»[8]. È la scoperta che fa, oggi stesso, chiunque si abbandoni alla medesima esperienza.
La secolarizzazione reale, spogliata di ogni vernice, dovrebbe consistere invece nel regno dell’immanenza assoluta, cioè un mondo privato assolutamente della trascendenza e così lo spirito non si distingue più dalla materia: non c’è alcuna profondità, tutto è superficie, c’è una sola e unica sostanza. Gilles Deleuze, gran sacerdote dell’immanentismo contemporaneo, una variante postmoderna del panteismo, nel suo pensiero presuppone infatti un flusso continuo tra mondo, carne, corpo e soggetto: non che Dio è il mondo né, tanto meno, che Dio è immanente in ogni cosa del mondo, ma che il mondo è Dio. La sua conclusione è nota: «bisogna credere in questo mondo, così com’è»[9]. E, siccome tra soggetto e mondo non dovrebbe esservi discontinuità qualitativa, ciò significa che l’Io stesso non è che una «modalità» del Dio-Mondo. Dio in questo caso resta solo un bel nome per dire l’assolutezza della materia. A ragione uno degli attuali maggiori esperti di panteismo sostiene che questo non sia altro che la forma estrema ma logica di un perfetto ateismo[10]. Penso che questo genere di credenze, convergenti in una «post-spiritualità materialista», sia uno dei motivi per cui l’apocalittica post-secolare che ossessiona molti nostri contemporanei finisca per concentrarsi sulla fine del mondo e non su quella dei tempi, sulla sua autodistruzione e non sulla sua redenzione messianica.
Se pensiamo invece allo spirito come potenza che irrompe nella storia attraversandola, sconvolgendola e fecondandola, mantenendo intatta la sua alterità, dobbiamo necessariamente fare riferimento al suo senso teologico e religioso. Quindi una distinzione sensibile tra le forme della spiritualità credo sia quella che rileva il suo rapporto con l’immanenza e l’alterità trascendente. Coltivarne una significa coltivare una singolare relazione con e tra queste due dimensioni che affettano il sé, come mostra quell’eccezionale manuale di spiritualità che sono appunto le Confessioni di Agostino d’Ippona. Senza obliare che l’escatologia cristiana non parla tanto di fine del mondo bensì di una fine dei tempi, cominciata con la vita, morte e resurrezione di Cristo e di cui nessuno nel mondo conosce il momento ultimo. Essa arriva come «un ladro nella notte», come un ospite inatteso, da qui la «vigilanza» come una delle caratteristiche della spiritualità cristiana. Essa semplicemente viene e, restando con Agostino, non indica affatto una distruzione ma una trasfigurazione del mondo: «questo mondo passerà per una trasformazione delle cose, non per un totale annientamento. Perciò l’Apostolo afferma: Passa la scena di questo mondo! Io vorrei vedervi senza preoccupazioni. Passa dunque la scena e non la natura»[11]. È cioè una trasformazione qualitativa del mondo che passa per la destituzione di ogni rappresentazione. Spiritualità, allora, è anche il cercare di andare con lo spirito oltre la «scena» e in specie rimanere attenti e aperti al venire di un assolutamente imprevedibile.
Ma che cos’è questo spirito che ogni spiritualità necessariamente presuppone? È parte del mistero, si dovrebbe rispondere. Se infatti lo riferiamo a una manifestazione divina, chiunque si sia minimamente interessato alla teologia cristiana sa che la terza persona della Trinità, lo Spirito Santo, è quella di più difficile rappresentazione e ciò ad ogni livello, quello artistico compreso. Significativamente il titolo di un testo dedicatogli da Bernard Sesböué suona Lo Spirito senza volto e senza voce[12]. A differenza del Padre e del Figlio, lo Spirito infatti agisce e parla attraverso altri e altro, come si intende molto bene dal Credo quando, a proposito dello Spirito Santo, recita «ha parlato per mezzo dei profeti», oppure quando nella Bibbia è evocato tramite eventi naturali che lo comunicano vitalmente come il respiro, la brezza leggera, il vento impetuoso, il fuoco e il terremoto[13].
Proprio per questo suo essere irrappresentabile – «senza volto e senza voce» – credo si possa intendere lo Spirito come l’agire critico della verità sul mondo in quanto rappresentazione e del suo irrigidimento storico nella rappresentanza, ovvero nel chiudersi su se stessa dell’istituzione. Infatti, per quanto questa sia necessaria anche nell’esperienza religiosa, finisce per sclerotizzarsi e costituire un ostacolo quando rimane sorda allo Spirito. Invece nella Bibbia, e segnatamente nel Nuovo Testamento, la presenza operazionale dello Spirito si mostra proprio nello sconvolgere e mutare ogni «scena», nell’aprire ogni struttura, mondana o spirituale che sia, e sempre precede l’evento: sospinge come fa il vento e sta davanti come il fulmine annuncia il tuono. Servendosi suggestivamente di un concetto della tradizione politica profana si potrebbe dire che lo Spirito sia l’avanguardia trinitaria. Diceva difatti Turoldo «senza Pentecoste non c’è chiesa»[14] e il Papa, in questi giorni, «se non c’è lo Spirito, non ci sarà sinodo»[15].
Lo Spirito è quindi allo stesso modo e senza possibilità di separazione una potenza destituente ed istituente ad ogni livello di realtà: personale, collettiva, cosmica. La teologia insegna che, nel simbolo del fuoco, lo Spirito ha infatti una funzione di purificazione e lo si invoca perché illumini il cammino e rinnovi ogni cosa. Lo Spirito possiede allora una funzione demistificante di tutto-ciò-che-c’è e la spiritualità stessa dovrebbe quindi essere intesa come una via per la demistificazione delle strutture del mondo, a partire ovviamente da quella del proprio Io. Mentre lo spirito mondano resta confuso con i fatti della storia, la loro rappresentazione e conservazione, quello Santo li attraversa e insuffla la potenza per destituire ogni realizzazione che non fa la verità e per creare nuovi ordini di realtà, porta una lama di luce nella confusione, abbatte ogni rigida rappresentazione e brucia ciò che ha «fatto il suo tempo» perché sorga il nuovo.
È dalle Scritture che conosciamo questa distinzione fondamentale, cioè quella tra lo spirito divino e quello che è chiamato lo «spirito di questo mondo» e tra i due vi è sempre un confronto e un conflitto. In questo mondo confuso credo sia una distinzione di una certa utilità.
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Occupiamoci un po’ dello spirito mondano, di cosa ha da dirci sul nostro tempo.
In relazione all’incrociarsi nella modernità di secolarismo e secolarizzazione è interessante che Jacob Taubes abbia messo lo «spirito del mondo» di cui ci parla san Paolo in relazione con il Weltgeist hegeliano e anzi sostenesse che Hegel sia entrato «con piena consapevolezza» in polemica con l’apostolo, cioè nel conflitto descritto da questo tra spirito divino (pneûma toû theoû) e spirito del mondo (pneûma toû kósmou) prendendo parte per il secondo. Parteggiando cioè per quello che Hegel raccontava di aver visto passare a cavallo sotto la sua finestra, ma il cui destino era conquistare il mondo e mettere fine alla storia. Taubes cerca di dimostrare che il Geist dell’Hegel maturo non ha nulla a che fare con il Pneuma evangelico, bensì con stati, guerre, imperi, philosophes, governi, ovvero lo spirito concepito esclusivamente come quello che domina in «questo mondo». Il geniale percorso di Hegel si conclude, lontano dalle sue intuizioni giovanili, con uno spirito identificato con la storia dei vincitori, la politica degli stati e la scienza dell’industria ma che infine delude, «fa brutta figura» ironizzava Taubes[16].
Questo spirito, quello della mondanità tout azimut, ha da allora effettivamente occupato spazi sempre maggiori, fino al tentativo attuale di coincidere totalmente con il mondo. Non va più a cavallo e preferisce espandersi tramite l’immateriale, il digitale, il gassoso, il liquido. È da notare pure che in Hegel la questione dello spirito è schiacciata sull’eticità, sulla moralità e infine sulla ragione che, in effetti, ci si è ormai abituati a pensare come potessero essere «prime». Ma prima viene lo Spirito. È in questo senso che in un altro intervento ho voluto dire che il comunismo dei beni nella chiesa primitiva, testimoniato dagli Atti degli apostoli, fosse una delle conseguenze dell’effusione dello Spirito e non un decreto-legge del parlamento degli apostoli basato su di una teoria sociologica o su di una loro particolare disposizione morale. Ed è qualcosa su cui dovrebbero riflettere coloro che ancora pensano a dei processi rivoluzionari. Si dovrebbe dire, anche qui, senza Spirito nessuna rivoluzione. E senza spiritualità, nessun rivoluzionario.
Venendo all’oggi del medio cittadino comune, quando lo spirito del mondo si è «democratizzato», che cosa gli offre? Mi pare di poter dire che quello che lo spirito mondano promette a chi vi si sottomette consista nel «benessere», una parola che mi accorgo di aver sempre associato a quella di borghesia e che riassume in sé un’etica, una morale e una ragione. La proposta-tentazione è nell’identificare il benessere con il fatto di darsi da sé, per sé soli e magari a spese degli altri, l’immanente soddisfazione dei propri desideri in cui dovrebbe consistere la felicità. È, volendo, una continuazione del conflitto tra libertà spirituale e felicità mondana come venne rappresentato da Dostoevskij nella Leggenda del Santo Inquisitore e, in fondo, anche una riformulazione della concezione hegeliana. L’individuo viene infatti considerato come un assoluto e la realtà ridotta a suo corollario e quindi, in ultimo, a irrealtà. La realizzazione del secolo si rivela essere una derealizzazione del mondo. Una radicalizzazione di quello che Hegel scriveva nella Fenomenologia dello spirito: «L’individuo che è un mondo»[17]. Parafrasando la famosa sentenza tatcheriana, il motto dell’ultraliberismo potrebbe essere «non esiste il mondo, esistono solo individui padroni dei loro mondi». Se l’individuo è un mondo, egli è anche la sua propria divinità. Per questo, specie nei momenti di forte crisi come quello odierno, l’«Individuo Sovrano»[18] si sente offeso e si ribella alla persistente realtà del mondo fuori di lui (e di Dio, ça va sans dire). A pensarci bene non sembrano idee così nuove, il cristianesimo ci ha avuto a che fare lungo tutta la sua storia. Nuovi sono i mezzi con i quali agiscono e le vesti con cui si presentano.
Un tempo non vi era una grande distanza tra spiritualità e religiosità. Molto approssimativamente la prima poteva indicare una pratica soggettiva e la seconda una pubblica, tendenzialmente unite nella fede. Quello che si potrebbe dire è che, essendo lo Spirito libero per definizione e sempre innanzi, anche alla religione, spesso le forme di spiritualità che ne hanno avuto intuizione hanno destituito canoni, norme e strutture sospingendo la realtà storica in avanti ma, appunto, perché a loro volta sospinte dallo Spirito. Si pensi al monachesimo o al francescanesimo, per fare due esempi di spiritualità molto conosciute. Oggi invece si tende ad assumere come qualcosa di dato che, mentre la religiosità definirebbe il rapporto che una persona o una collettività intrattiene con un sistema tradizionale di credenze e di norme cultuali, una religione per l’appunto, la spiritualità sia un fatto del tutto individuale i cui effetti restano a livello individuale, come fosse un regno del privato cittadino rispetto alla pubblicità della religione e che non necessariamente debba contemplare una fede o una certa relazione con la trascendenza.
Per cui si parla correntemente di spiritualità sia per indicare una pratica meditativa, quanto la credenza nella virtù dei fiori di Bach o dei cristalli, sia per un modo di intendere il rapporto alla vita e alla morte, quanto la coltivazione di esercizi per l’autostima o per diventare un manager di successo. Nell’ideologia post-secolare agisce una concezione dello spirito esattamente all’opposto di quella cristiana: individualizzazione versus comunione, separazione delle differenze versus unità nella diversità. Ipertrofia derealizzante dell’Io versus realismo creativo del Noi. La post-spiritualità si riconosce preferibilmente dalla credenza esclusiva nell’Io e nella sua performatività. Sul mercato è possibile quindi trovare spiritualità di ogni tipo e per ogni esigenza: economiche, politiche, religiose, filosofiche, sessuali, mediche, scientifiche e letterarie. Per ultima, ma non ultima, vi è la spiritualità che chiamerei cibernetica sulla quale vorrei soffermarmi per un momento, in quanto è non solo la più moderna ma tende a sovrapporsi insidiosamente a tutte le altre.
Una decina di anni fa, facendo ricerca con degli amici, mi imbattei in un articolo americano che parlava del lancio di una applicazione per smartphone chiamata GPS for the Soul sponsorizzata dalla padrona del giornale, Arianna Huffington, in collaborazione con la Apple e la cui pubblicità non provava imbarazzo nel sostenere che fosse uno strumento per ritrovare e «connettere» l’anima col corpo e al mondo sensibile, al fine di poter interrompere per qualche minuto la faticosa routine quotidiana in cui si è costretti ad essere sempre connessi virtualmente. Tramite l’applicazione si può «misurare lo stato di stress della tua mente, del tuo corpo e del tuo spirito e automaticamente fornirti ciò di cui hai bisogno per riallineare tutti i tre aspetti del tuo essere»[19]. Vi si possono caricare le foto e la musica che ami e l’applicazione ti fornirà esercizi e pensierini tratti ad esempio dalle opere di un santone per impiegati di Manhattan come Deepak Chopra, i consigli dell’influencer Gretchin Rubin, autrice di bestseller mondiali del tipo Cambiare è facile: come cambiare abitudini e vivere felici, quelli della wellness coach Laura Norman e naturalmente le pillole di saggezza della stessa Arianna.
D’altronde, dopo aver messo sul mercato applicazioni per qualsiasi cosa che serva a schermare tecnologicamente il rapporto del soggetto con il mondo, perché il capitalismo non avrebbe dovuto offrire delle comode applicazioni per la cura dell’anima (schermando cioè il rapporto di ciascuno con il proprio spirito)? Ma dove resta l’anima, ancora con il corpo oppure è inserita nel dispositivo sotto forma di stringhe numeriche? Ricordo che ne rimasi particolarmente impressionato, vi lessi come una sottile ma precisa allusione anche alla trasformazione nel rapporto di produzione, nel senso che il capitale non compra e rivende più solamente la forza-lavoro, cosa che ormai si tende a rappresentare come qualcosa di arcaico, bensì l’anima e lo fa scopertamente. Compriamo e rivendiamo anime, potrebbe essere lo slogan delle grandi e potenti imprese tecno-capitaliste. Margareth Thatcher diceva già nel 1981: «L’economia è il metodo, l’obiettivo è cambiare il cuore e l’anima». Niente più templi, chiese, moschee e sinagoghe, ma nemmeno piazze, fabbriche o uffici, niente più comunità viventi in assoluto, basta connettersi con l’oggetto magico perché l’Io entri in contatto con una fonte di «energia spirituale», gli algoritmi si occuperanno di trovare quale sia la spiritualità adeguata alla singola individualità, o meglio ai comportamenti economici che la definiscono. Non c’è nessun incontro, nessun affetto vivente, nessun «prossimo», nessuna comunità nello spirito, che troverai dietro quelle stringhe informatiche. In compenso c’è lo spirito del denaro, che cambierà la tua anima. Non so nemmeno se si possa chiamare idolatrica una simile aberrazione.
Questo è solamente un piccolo esempio della speciale produzione di soggettività modellata dalla tecnologia digitale. Attraverso la sua frequentazione abituale, la quale avviene specialmente tramite i social media, l’individuo è portato a continuamente decostruire e ricostruire le diverse parti di sé in modo da produrre un’identità fluida, liquida per l’appunto. Più esattamente, vi si produce una soggettività disincarnata. Ogni giorno è possibile aggiornare la propria spiritualità, ma sarebbe forse più corretto parlare di spiritualismo e spiritualizzazione al proposito, eliminando le scelte precedenti, cambiando delle parti e acquistandone altre, esattamente come si è «invitati» a farlo per ogni aspetto dell’esistenza, nell’amore e nel lavoro, nell’appartenenza politica e religiosa: niente, nessun evento della vita, può più ambire ad essere occasione di una decisione fondamentale, gratuitamente e per sempre. Così come diviene sempre più difficile avere relazioni affettive profonde, intense e fedeli, allo stesso modo è sempre più arduo mantenere una fedeltà ad un principio spirituale. La precarietà, la fluidità, la superficialità e la virtualità governano ogni aspetto dell’esistenza e la sola cosa a cui dovrebbero ridursi i nostri affanni sarebbe la salvaguardia del proprio tenore di vita in mezzo a queste fluttuazioni quotidiane.
Vi è uno sfondo che credo accomuni tutte queste forme di post-spiritualità e cioè quello «terapeutico». Nel senso che, in un mondo di soggettività sofferenti, ciò che appare essere il valore d’uso e di scambio di questi dispositivi spirituali è la loro presunta capacità di cura del sé. La cura del proprio sé si identifica con quella fisica, psichica ed economica, cioè il wellness, il benessere, al posto della salvezza e della redenzione. È dunque possibile acquistare e vendere una spiritualità sul mercato senza che il venditore e l’acquirente debbano impegnarsi in una fede, senza che l’esperienza individuale debba mai confrontarsi con una comunità o una tradizione, ma dovendo per contro aderire a un sistema ben preciso di organizzazione astratta del mondo.
Da un lato, certamente, tutto questo è un effetto del secolarismo moderno, dall’altro, come accennavo, credo sia frutto di una tendenza filosofico-religiosa molto aggressiva con la quale il cristianesimo si è dovuto confrontare fin dai suoi inizi. Questo per dire che anche sotto le spiritualità più fatue vi è un duro suolo ideologico che le autorizza. Il liberismo esistenziale che dilaga nelle nostre società, e nel quale è compreso anche quello spirituale, non è allora, come spesso si crede, qualcosa che non merita un’attenzione maggiore di quella che si riserva a un banale fatto di costume. È invece il portato di un sistema antropologico forte e determinato, tanto da aver mosso guerra e colonizzato ogni strato sociale e il luogo in cui avviene il combattimento è l’anima.
Vorrei precisare di non essere un tecnofobo e trovo che vi siano delle applicazioni molto utili; tuttavia, credo anche che non debbano essere le tecnologie digitali a guidare la (de)costruzione della persona e tanto meno che l’algoritmo debba e possa sostituire lo spirito. In fatto di spiritualità le tecnologie dovrebbero essere usate con grande attenzione e parsimonia e non v’è dubbio che siano state molto utili in un momento di emergenza come quello appena vissuto ma, in generale, dovrebbero essere utilizzate per metterci in relazione con luoghi, esperienze, corpi e anime vive. A volte lo fanno, più spesso però servono a far credere all’individuo che sia sufficiente collegarsi ad un telefono, guardare dei video, iscriversi ad una chat room, ascoltare il primo che passa per i cavi et salvavi animam meam. L’individualismo selvaggio che vediamo crescere di giorno in giorno è di fatto stimolato e nutrito dal rapporto a sé e al mondo che viene indotto tramite questi strumenti.
Vi è un altro aspetto interessante della multiforme post-spiritualità contemporanea a cui vorrei accennare, meno pacchiano di un GPS per l’anima ma non meno coinvolto nella secolarizzazione reale, cioè la cosiddetta «spiritualità politica». Se nel Novecento è probabilmente Max Weber ad aver posto inizialmente, senza comunque confonderne i piani, il tema della relazione che può esservi tra spiritualità e politica, credo che nel campo del pensiero non religioso il primo a parlare esplicitamente di una spiritualità che si definisce attraverso una politica e di una politica che trova la sua giustificazione in una spiritualità, quindi indicando un punto di unità e allo stesso tempo di indifferenza tra i due ambiti, sia stato Michel Foucault. Lo ha fatto in un primo momento nel 1978 quando, scrivendo della rivoluzione iraniana per il Corriere della sera, utilizzò il sintagma «spiritualità politica» scrivendolo in corsivo ma lasciandolo sostanzialmente indefinito. Quindi vi è ritornato analiticamente pochi anni dopo, in particolare in uno degli ultimi corsi tenuti al Collège de France, quello del 1981-82 su “L’ermeneutica del soggetto”, in cui provò a formulare una definizione della spiritualità in generale e durante il quale, in alcuni brevi passaggi, tornò sulla questione della spiritualità politica cercando di applicarla all’esperienza occidentale dei moderni rivoluzionari. Sul tema della spiritualità vi è anche il famoso seminario californiano che Foucault dedicò a quelle che, significativamente, chiamò Tecnologie del sé[20].
Quello che mi interessa è il fatto che la nozione di spiritualità da lui elaborata, come altri suoi concetti, abbia avuto una grande influenza nell’orientare la ricerca politico-esistenziale degli ultimi decenni e specialmente quella della mia generazione. Fu infatti con un certo entusiasmo che molti tra noi, all’epoca dell’edizione del corso foucaultiano, salutarono le sue parole sulla spiritualità e forse fu proprio quell’eccesso a impedirci di vederne i limiti e l’ambiguità di cui egli stesso ha forse avuto una, seppur non sempre chiara, consapevolezza. Il problema con la sua nozione di spiritualità politica, ancora prima che nell’incerta definizione, consiste nel fatto che Foucault stesso non ha mai creduto alla sua utilità, forse proprio perché intuiva che il rimando a una trascendenza, per quanti sforzi potesse fare, restava inaggirabile. Questa sua posizione si è compresa solo molti anni dopo quei suoi famosi interventi, grazie a un’intervista inedita nella quale Foucault si lamentava di non essere stato compreso, anzi di essere stato malinteso: «Non ho mai personalmente aspirato, checché ne dicano, ad una spiritualità politica (...) non ho mai pensato che la spiritualità politica possa essere attualmente, come dire, un’aspirazione (…) possibile o augurabile in Occidente»[21]. Non era la prima e non fu l’ultima volta in cui l’intellettuale francese si trovò a dover cercare di chiarire la sua posizione e, se è pur vero che spesso vi fu malafede in quelli che commentavano il suo lavoro, il fatto che dovesse continuamente chiarire cosa lui veramente intendesse dire, fa pensare che il suo modo di porre le questioni fosse, se non oscuro, quantomeno ricco di ambiguità e l’uso che fece del concetto di spiritualità politica non fa eccezione. D’altra parte, questa ambiguità è uno dei motivi per cui è tra gli autori più commentati di sempre. Dopo aver letto quella intervista è stato per me inevitabile pensare che Foucault non credesse alla possibilità di un uso della spiritualità in generale, pur se provò a darne una forte e credo utile definizione nel corso del Collège de France al fine di distinguerla dalla filosofia. Ma tutti i suoi tentativi appaiono come monchi, irrisolti e le idee sviluppate sulla «cura di sé», suo malgrado, penso non siano del tutto estranee alle degenerazioni contemporanee proprio perché, infine, Foucault riduce la spiritualità ad una tecnologia del soggetto.
La politica può, a certe condizioni, coniugarsi a molte cose, all’amicizia ad esempio, tuttavia trovo sia davvero problematico costringere spiritualità e politica in un contenitore unico, a detrimento della loro rispettiva autonomia e quindi degli scambi che potrebbero esservi tra l’una e l’altra. I problemi, le confusioni e le illusioni che può creare quel concetto di spiritualità politica penso siano maggiori degli eventuali vantaggi; alla fine una delle due si mangerà l’altra e la storia dice che generalmente è la politica a farlo. Considerazione che in buona parte credo possa valere anche per la teologia politica di derivazione schmittiana la quale è, ovviamente, una secolarizzazione della teologia e di fatto la maggioranza di coloro che ne fanno uso, a destra come a sinistra, credono a molte cose tranne che nel «Theoû», la qual cosa un certo sospetto lo fa venire. Quello che andrebbe indagato è piuttosto la relazione virtuosa o il conflitto aspro che può sussistere tra «spiritualità e politica» come recitava il sottotitolo della rivista italiana “Bailamme”, animata un paio di decenni fa da credenti e non, dove non era scontata quale fosse la funzione della e. Quel sottotitolo, scrive oggi Fabio Milana, si può infatti intendere facilmente in senso antinomico[22]. Sono qui utili le considerazioni, tutto sommato abbastanza scettiche, di Giuseppe Dossetti interrogato in proposito dai redattori di quella rivista: «Non si può teorizzare allora una compatibilità di principio, ma non si può neanche affermare un’incompatibilità di principio»[23] La ricerca di Mario Tronti, a partire dai suoi articoli in quella rivista fino al recente volume Dello spirito libero, credo mostri ampiamente questo inevitabile corpo a corpo.
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Facciamo un passo indietro, torniamo al principio. In un frammento pubblicato sulla rivista Athenaeum, scritto quindi poco più di due secoli or sono, il quale esprime molto bene il funzionamento della filosofia della storia moderna come fu poi definita da Karl Löwith, cioè come un’escatologia secolarizzata, Friedrich Schlegel dichiarava che «Il desiderio rivoluzionario di realizzare il regno di Dio è il punto elastico della cultura progressiva e il principio della storia moderna. Ciò che in essa non ha relazione col regno di Dio ha un valore secondario»[24]. Il buon Friedrich illuminava romanticamente la venuta al mondo di un nuovo principio storico, cioè quello di un messianismo politico progressista che poteva trascinare l’umanità verso un eschaton il quale si avviava ad essere inteso in maniera del tutto mondana. L’escatologia venne così «culturizzata» per dirla con Sergio Quinzio, il quale scriveva negli anni ‘60 che in ogni caso «senza affrontare il nodo iniziale del rapporto tra regno e mondo, tra religione e politica, che ci lega da duemila anni, non possiamo che continuare ad avvolgerci negli stessi equivoci»[25].
Ma la cultura, di per sé, non avrebbe mai potuto realizzare quel programma romantico. Ci voleva la forza, come mostravano all’epoca gli avvenimenti della Grande Rivoluzione. E così il principio si divise in due: furono il capitalismo e il movimento operaio organizzato le grandi imprese rivoluzionarie che hanno cercato, una contro l’altra, di appropriarsi della forza e realizzare quel desiderio progressivo del moderno, entrambi concependo il regno come una dimensione del tutto mondana. Poco tempo dopo quelle parole di Schlegel avvenne infatti che Dio fosse dichiarato morto eppure il regno rimase, sia come tensione dell’ideale che in quanto fine della storia. Quello che restava era, dunque, un messianismo senza Messia e un regno senza Dio: prolegomeni a ogni catastrofe futura. E chissà se sarebbe andata diversamente se il comunismo moderno, invece di farsi affascinare dai vari positivismi e idealismi, avesse ripreso coscientemente la tradizione comunistica che affonda nella Bibbia. Poiché, come diceva Turoldo, nella scintilla iniziale di ogni rivoluzione vi è la presenza dello Spirito e «il comunismo poteva essere la rivoluzione dei poveri; a una condizione, che non fosse tradita precisamente la legge della povertà. Invece tutto è fallito miseramente. Non si è tenuto conto della cupido rerum, della possibilità del peccato (…) si è pensato di fare un comunismo prescindendo dalla forza della religione, quando essenza della vera religione è “conservarsi puri da questo mondo” (Giacomo 1, 27)»[26].
Il capitalismo non è una scienza come la medicina o la geologia ma un sistema di potenze mondane che ha l’ambizione di risolvere le questioni «ultime» dell’umanità in maniera totalizzante, instaurando cioè un suo regno assoluto, perciò non ebbe torto Walter Benjamin nel definirlo come una religione o, quanto meno, nel considerarlo un suo simulacro. Lo stesso discorso, sulla scorta dell’aforisma schlegeliano, potrebbe essere fatto nei riguardi del comunismo. In realtà vi è però una differenza sostanziale se diamo retta a un’altra affermazione di Turoldo – ma era un pensiero già espresso da altri, da Jacques Maritain ad esempio – e cioè che il comunismo fosse in realtà un’eresia cristiana. Mentre, diceva ancora il frate, il capitalismo è un sistema «necessariamente ateo»[27].
In ogni caso, davanti la storia, capitalismo e socialismo realizzati sono apparsi nelle vesti di religioni dell’immanenza in lotta tra loro per l’appropriazione del futuro. Si sono viste passare nel mondo molte figure di quel desiderio moderno: rivoluzioni borghesi e rivoluzioni proletarie, deismi repubblicani ed escatologie comuniste, tecniche ascetiche per banchieri e campagne di conversione degli operai, redenzioni in un paese solo e apocalittiche guerre mondiali. Giustappunto: passano le figure di questo mondo, non la sua natura. Passa pure la «rivoluzione in Occidente», non quella del regno dei cieli.
Capitalismo e comunismo hanno dunque sviluppato delle proprie forme di spiritualità? È possibile una spiritualità senza trascendenza o atea? Sì, se accettiamo la separazione antagonista che san Paolo opera tra lo spirito di questo mondo e lo spirito che viene da Dio. Di fatto però, e non per caso, il mondo in cui viviamo è la realizzazione dello spirito del capitalismo: un paradiso terreno in cui ciò che non ha relazione con il regno della merce ha un valore secondario e spesso neanche quello. Il regno è qui, la storia è finita, non andate in pace.
Il capitalismo, una volta fallito l’esperimento socialista e realizzatosi globalmente, non ha avuto più alcun bisogno di una «cultura progressiva» e senza tanti complimenti ha reciso l’elastico rivoluzionario. Insieme al passato è stato dunque abolito il futuro per poter godere sans trêve et sans merci della propria realizzazione. Il regno di Dio è stato tradizionalmente rappresentato come un eterno presente ed è questa temporalità teologica che è stata secolarizzata e imposta al mondo una volta che il desiderio capitalistico è divenuto il sistema dominante. È infatti ormai una banalità dire che si vive come in un «presente immobile, senza vie d’uscita». In questo carcere del tempo consiste infine la secolarizzazione reale. Esattamente qui risiede però la differenza con il tempo divino poiché questo, nelle Scritture e nella rappresentazione teologica, non è affatto immobile, perché Dio opera incessantemente per offrire una via d’uscita al mondo la quale, nella fine, consiste nella redenzione di tutta la storia. Ma una volta offertagli la via, è con le sue forze e nella sua libertà che l’uomo deve fare il cammino. La realizzazione del regno del denaro è invece un tempo bloccato su se stesso, come in un orgasmo senza fine dove il resto – ovvero tutti coloro che non hanno relazione con lui, tutto ciò che è secondario, secondo l’aforisma di Schlegel – non merita di esistere e perciò deve essere eliminato o lasciato morire. Oppure lottare.
Che la storia terminasse con il biennio 1989-1991, come annunciava il celebre libro di Francis Fukuyama sulla «fine della storia e l’ultimo uomo»[28], non significava affermare che nulla sarebbe più accaduto, come alcuni credettero superficialmente di comprendere e su cui si ironizzò fin troppo, ma ipostatizzare che niente avrebbe potuto più sostituire capitalismo e liberalismo e che quindi, certo, ancora ci sarebbero stati sommovimenti e guerre, crisi e riprese, rapine e flagelli, ma qualsiasi accadimento sarebbe ormai avvenuto ora e per sempre dentro quel perimetro economico-politico. È dunque a questo presente che dà l’impressione di girare infinitamente su se stesso che quel libro ci stava preparando. In quella profezia americana la storia finiva perché era finito il socialismo e si metteva in soffitta il comunismo, ma anche in quanto la nuova epoca stava obliterando il cristianesimo, la sua messianicità. Si trattava infatti di cancellare il futuro, ferire a morte la speranza e oscurare il Messia. Da qui viene l’estrema difficoltà della resistenza a questo processo di colonizzazione del mondo e delle anime.
Ogni tempo crea le proprie soggettività e questo in cui siamo, malgrado la babele delle mille e una «differenze» che ornano le nostre società, si riduce ad essere, per chi lo accetta, un diorama di variazioni di un solo e unico modello antropologico: l’homo oeconomicus, con il suo mondo e il suo tempo. Non è possibile, dunque, leggere la crisi del soggetto senza collegarla intimamente a quella del tempo storico e metastorico. Questo significa che, se si vuole sospingere la storia contro questo presente, è questa temporalità imposta che bisogna sovvertire, ma per farlo bisogna sabotare la produzione della sua soggettività in noi stessi, ovvero da un lato raggiungere una libertà spirituale e dall’altro che si rafforzino e diffondano altre forme di vita che non seguano «lo spirito di questo mondo», bisogna cioè riprendere il discorso sull’«uomo nuovo» e disporsi ad ascoltare lo Spirito.
Per adesso il mondo pare ancora rinchiuso nel perimetro disegnato da Fukuyama e gli abitanti per lo più si aggirano sperduti nel giardino artificiale al cui centro c’è l’albero di Mammona. È ad incidere sulla terra e nelle anime questa sua verità ultima che l’apparato ideologico del capitalismo si è dedicato negli ultimi decenni. E bisogna ammettere che il sentimento del non esservi alcuna uscita da questo presente è non solo diffuso ai quattro angoli della terra, ma regna su di essa come se fosse la realtà. La quale, rappresentata nei termini di «cosa ultima», ha acquisito logicamente una nera tonalità apocalittica che si è via via acuita nella coincidenza globale di una crisi economica, climatica, esistenziale, politica, sociale, religiosa, ecologica e infine sanitaria. Nell’ideologia corrente che scorre inesorabile sugli schermi non è più la Storia ma il Mondo che finisce. La cultura di massa – romanzi, film, serie Tv, giornali, filosofie – è satura di «esercizi spirituali» che vorrebbero insegnarci come stare nel tempo apocalittico che, in questa narrazione, è un tempo di distruzione, disperazione e morte, ovvero l’immersione in un inferno: al termine di questa apocalisse mondana non c’è la città celeste ma l’annientamento della vita, e tutti lo sanno. Per invertire il processo ciò che dev’essere distrutto è quell’albero degli zecchini d’oro che dà senso al tutto, stando presso i vinti, gli ultimi, gli invisibili. No, non si possono servire due padroni.
Ma proprio perciò, per resistere e per vivere, è importante opporre degli altri esercizi spirituali che abbiano per oggetto il «non esistere» per il mondo e farlo per il regno. Negli ultimi anni si è cercato di teorizzare e diffondere pratiche di invisibilità e credo che in quello sforzo, spesso ingenuo o macchinoso, dovremmo vedervi l’accidentata ricerca di una vita che tenta di sottrarsi all’apocalittica del capitale e perciò quella di una spiritualità la quale, tradizionalmente, è anche lotta[29]. Il fatto è che ciò che è davvero invisibile è solamente lo spirito. Vista l’assenza di vie d’uscita orizzontali, improvvisamente ci si trova a guardare verso l’alto: la speranza è una forza che preme dal cielo. Ovviamente ciò non va senza problemi e sono forse la maggioranza quelli che, arrivati a questo punto, non se la sentono di proseguire oppure lo fanno solo in senso figurato e sostanzialmente retorico, assumendo la questione della spiritualità o del teologico-religioso in termini etico-estetici, ovvero ancora una volta nei termini secolarizzanti della religione della modernità. La delusione è appena dietro l’angolo.
Prendendo dentro di sé la questione, vi è invece molto da pensare e da fare. Con Mario Tronti abbiamo ad esempio proposto alla riflessione la xeniteia dei primi monaci cristiani, cioè il farsi stranieri al mondo per poterlo meglio combattere[30]. Ma quel movimento di sottrazione polemica comprende anche un aspetto «penitenziale» che significa la trasformazione di se stessi, una rivoluzione del cuore che non può che cominciare con l’azione dello Spirito. Il percorso dovrebbe andare allora dalla semplice resistenza alla conversione. Divenire «poveri nello spirito», elaborando una forma di vita povera, con i poveri e per i poveri: una spiritualità. Da sempre i poveri non hanno diritto all’esistenza davanti ai poteri di questo mondo. Eppure, loro è il regno dei cieli, da loro dunque bisogna imparare e a partire da questa parzialità orientarsi nel mondo. Le Beatitudini sono come una cartografia del regno che si iscrive direttamente nei cuori, per destituire l’Ego, e quindi nel mondo, per sovvertirlo.
Affrontare la rappresentazione dominante della realtà allora significa certamente la necessità di organizzare il conflitto, di stabilire nuovi rapporti di forza, di una vera politica cioè, ma è altrettanto importante avere coscienza che il combattimento si pone allo stesso tempo su di un piano teologico. Meglio: teologico e spirituale. Poiché se la teologia sta per la dottrina, la spiritualità sta per la speciale qualità di come si vive. Credo sia anche per tutto questo che negli ultimi anni abbiamo assistito nel pensiero laico a un theological turn a cui si è affiancata, nell’elaborazione politica radicale, una forte esigenza di spiritualità. Tuttavia, quello che è mancato a quel pensiero e a quella pratica credo sia proprio la radicalità dello spirito. Alla fine dei conti non vi si è creduto abbastanza e senza una fede, pur abitata dal dubbio, si è facilmente spazzati via da un qualsiasi evento che superi la soglia di una semplice crisi. È dunque, questo, il momento di uno spiritual turn: «Veni, creator Spiritus».
Il capitalismo non ha vinto ovunque perché ha saputo meglio argomentare sul piano della dottrina, ma perché è stato in grado di penetrare e corrompere le anime e di realizzare in tal modo la propria antropologia, la quale ha richiesto un divorzio sempre più sensibile del soggetto dalla realtà. E questo perché la realtà non è di per sé capitalista, così come il regno di Dio è qui eppure non è di questo mondo. Ma il soggetto può esserlo, tanto capitalista che di questo mondo. Siate nel mondo ma non del mondo, dice infatti il Maestro, dando una diversa misura della realtà e tracciando la via con la quale resistere e fare nuove tutte le cose. Per chi si identifica con questo presente assoluto il paradosso è invece l’opposto: egli è del mondo, ma non è nel mondo. Gli si appartiene, cioè, a condizione di perdere ogni senso della realtà. Il soggetto preso nella mondanità è ormai quello che meno conosce il mondo, se intendiamo il verbo conoscere come nella Bibbia, cioè come designante una profonda relazione affettiva e non solo intellettuale o peggio strumentale con gli altri, con la realtà e perciò con l’Altro. Piuttosto crede di «percepire» se stesso e il mondo, virtualmente, nell’apparenza e spesso nella menzogna. Abita un fake world del quale le fake news sono giusto la schiuma. La via della spiritualità è invece quella che riunifica il soggetto alla realtà, la parola alla vita e la vita alla verità. Il resto è fake spirituality.
La tecnologia che controlla economicamente ogni cosa di questo mondo, idolo tra i più potenti della religio modernitatis, è un governo delle anime prima e più che dei corpi. I padri della cibernetica ne erano ben consapevoli. L’ultraliberismo dei nostri giorni è un governo politico-spirituale dell’ordine mondano che si realizza attraverso una sofisticata psico-tecnologia. A quest’altezza, o bassezza, si svolge la battaglia.
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Il cristianesimo, diceva padre Turoldo, è la religione del come[31]. L’avventura comincia con il come meravigliato della Vergine – «Come avverrà questo, poiché non conosco uomo?» (Lc 1, 34) – continua con le domande stupite degli apostoli «Come riuscire a sfamarli di pane qui, in un deserto?» (Mc 8, 4) e culmina nell’unico grande comandamento, nel principio che Gesù consegna a chi lo interroga e ai discepoli, ormai non più servi ma amici: «Vi do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri. Come io ho amato voi, così amatevi anche voi gli uni gli altri.» (Gv 13, 34), perciò «non siate dunque come loro» (Mt 6, 8). E, rompendo vertiginosamente ogni separazione, che sia «come in cielo così in terra» (Mt 6, 10).
Se ogni spiritualità ha necessariamente un principio, quello cristiano è contenuto in questo come. Imitatio Christi vuol dire imitare il suo come, traendone una forma vitae. Si tratta dunque di una lotta tra principi antagonisti, tra comandamenti per i quali ne va della vita stessa. E il Cristo destituisce l’arché del tempio esteriore e della legge del mondo per restituirlo all’infondato fondamento (arché anarchos) che è il Padre, quindi mostrandolo nel suo corpo e, attraverso la croce, offrendolo all’umanità: noi siamo diventati così il tempio dello Spirito, dice l’apostolo Paolo nella lettera ai Corinzi (Cor1, 6-19). Immanenza e trascendenza si toccano, si attraversano, comunicano nello spirito, non sono realtà che si escludono l’un l’altra. Nella resurrezione la redenzione è per l’anima e il corpo insieme. Il principio di questo mondo è invece posto nel divenire merce del mondo, del corpo e delle anime che è la loro perdizione, il loro annichilimento. Quella odierna non è che una stazione della lotta apocalittica cominciata duemila anni fa sotto l’ombra del crocifisso che si allunga sopra l’eternità.
Il che fare? è la questione della storia, mentre il come fare? è quella della vita e se non si è capaci di rispondere a questa domanda a poco servirà farlo con la prima. Il Novecento è stato una grande lezione pure in questo senso: se rovesci una forma ingiusta del governo del mondo ma rimandi a un domani indeterminato la risposta a come vivere qui e ora nel mondo, se obliteri la questione della forma di vita, se non ascolti lo Spirito, nessuna organizzazione politica ed economica, per quanto giuste possano essere le intenzioni, può resistere alla violenza e alla corruzione del principe di questo mondo. Senza «uomo nuovo», nessuna nuova civiltà. Mi sembra questa, infatti, la posta in gioco dell’enciclica di Francesco Fratelli tutti, che si apre presentando la fratellanza e sorellanza non come una bella idea sentimentale, bensì come una «forma di vita» per sollevare il mondo.
Agli inizi del secolo scorso Charles Péguy scriveva, lamentandosene, che «tutto comincia in mistica e finisce in politica». Oggi bisognerebbe non tanto invertire la marcia, cioè che tutto quello che inizia in politica debba finire in mistica, ché sarebbe un altro disastro, bensì che mistica e politica possano camminare una di fianco all’altra sospinte dallo Spirito, inquietando le anime e sfidando le pretese dei poteri mondani sulla potenza della vita: facendoci attenti e aperti a quello che, imprevedibilmente, non smette mai di venire.
Roma, 1 Novembre 2021, Festa di Ognissanti
Note:
[1] Una versione in italiano della lettera è contenuta in Ludwig Feuerbach, Opere, a cura di C. Cesa, Laterza, Bari 1965, p.3-8.
[2] Ludwig Wittgenstein, Tractatus logico-philosophicus e Quaderni 1914-1916, 6.41, Einaudi, Torino 1998, p.106.
[3] Davide Maria Turoldo, La mia vita per gli amici. Vocazione e resistenza, Mondadori, Milano 2004, p.152-153.
[4] https://www.quodlibet.it/giorgio-agamben-la-medicina-come-religione.
[5] Hans Urs von Balthasar, Spiritus creator, v. XXII Opere, Morcelliana/Jaca Book, Milano 2017, p.217.
[6] Giovanni Vannucci, Esercizi spirituali, Romena, Pratovecchio 2005, p.99.
[7] Von Balthasar, cit., p.82-83.
[8] Agostino, Le confessioni, III, 6-11, a cura di C. Carena, Città Nuova, Roma 1995, p.68.
[9] Cfr. Gilles Deleuze, L’immagine-tempo. Cinema 2, Ubulibri, Milanno 1989, p.190-193.
[10] Emanuele Dattilo, Il Dio sensibile. Saggio sul panteismo, Neri Pozza, Vicenza 2021.
[11] Agostino, La città di Dio, a cura di L. Alici, Bompiani, Milano 2001, XX,14, p.1019.
[12] Bernard Sesböué, Lo Spirito senza voce e senza volto, San Paolo, Milano 2010.
[13] Cfr. Etienne Vetö, Il soffio di Dio. Un saggio sullo Spirito Santo nella Trinità, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2020, p.52: «Parlare e agire in e attraverso altri, implica che lo Spirito sia se stesso in e attraverso altri».
[14] David Maria Turoldo, Mia chiesa pentecoste vivente, Servitium, Milano 2018, p.16
[15] https://www.vatican.va/content/francesco/it/speeches/2021/october/documents/20211009-apertura-camminosinodale.html.
[16] cfr. Jacob Taubes, La teologia politica di San Paolo, Adelphi, Milano1997, p.84-87.
[17] G.W.F. Hegel, Fenomenologia dello spirito, v.2, a cura di E. De Negri, La Nuova Italia, Firenze 1973, p.4.
[18] James D. Davidson, William Rees-Moog, The Sovereign Individual. The Coming Economic Revolution, How to Survive and Prosper In It, MacMillan, New York 1997.
[19] https://www.huffpost.com/entry/gps-for-the-soul_b_1427290.
[20] Per la spiritualità politica e la rivoluzione iraniana si veda Michel Foucault, À quoi rêvent les Iraniens? in idem, Dits et ècrits II, 1976-1980, Gallimard, Paris 2001, p.688-694; sulla spiritualità in generale cfr. la lezione del 6 gennaio 1982 in idem, L’herméneutique du sujet. Cours au Collège de France 1918-1982, Gallimard/Seuil, Paris 2001, p.4-26. Infine (Un seminario con) Michel Foucault, Tecnologie del sé, Bollati Boringhieri, Torino 1992.
[21] Farès Sassine et Michel Foucault, Entretien inedit avec Michel Foucault 1979, Foucault Studies n°25, October 2018, p.357-358.
[22] Cfr. Fabio Milana, 1989 e dintorni, in AA.VV., a cura di A. Cerutti e G. Dettori, La rivoluzione in esilio. Scritti su Mario Tronti, Quodlbet, Macerata 2021 (in uscita).
[23] Giuseppe Dossetti, Il vangelo nella storia. Conversazioni 1993-1995, Paoline, Milano 2012, p.98.
[24] Friedrich Schlegel, Frammenti e scritti di estetica, Sansoni, Firenze 1967, p.79-80.
[25] Sergio Quinzio, Cultura e religione. Una proposta escatologica, in Tempi presenti, anno XI, n°1, gennaio 1966, p. 22-30.
[26] D.M. Turoldo, Profezia della povertà, Servitium, Milano 2012, p.31-32.
[27] D.M. Turoldo, Lettere dalla Casa di Emmaus, Servitium, Milano 2016, p.20.
[28] Francis Fukuyama, La fine della storia e l’ultimo uomo, Rizzoli, Milano 1992.
[29] Sulle pratiche di invisibilità si veda Comitato Invisibile, L’insurrezione che viene-Ai nostri amici-Adesso, Nero, Roma 2019, p.80-84 e Donatella Di Cesare, Il tempo della rivolta, Bollati Boringhieri, Torino 2020, p.89-100.
[30][30] Cfr. Mario Tronti e Marcello Tarì, Xeniteia. Contemplazione e combattimento, http://www.dellospiritolibero.it/?p=607.
[31] D.M. Turoldo, Anche Dio è infelice, San Paolo, Milano 2016, p. 71.
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immagine di copertina: Marc Chagall, Mosé e il roveto.