Editoriale del n. 6/2021 di Altraparola

Editoriale del n. 6/2021 di Altraparola

24 Febbraio 2022 Off di Francesco Biagi

[A stretto giro uscirà il n. 6/2021 di Altraparola. Anticipiamo qui l’editoriale introduttivo]

 

L’editoriale che segue non può proporsi una sintesi degli interventi così plurali e differenziati contenuti in questo numero. Più modestamente esso vuole rendere conto di pensieri e parole che hanno spinto la redazione della rivista a immaginarlo, e cioè solo del momento preliminare alla sua realizzazione. Come ognuno potrà vedere essa procede poi per le sue vie, non sempre e non necessariamente coincidenti.

La prima idea di questo numero è nata da una discussione seminariale sulla distinzione operata da Foucault in Ermeneutica del soggetto (nel seminario del 6 gennaio 1982) tra spiritualità e teologia e sul concetto del capitalismo come religione in Benjamin: «La spiritualità postula…che la verità non è data al soggetto da un semplice atto di conoscenza, che sarebbe fondato e legittimato perché egli è il soggetto e perché ha questa o quella struttura di soggetto. Essa postula che il soggetto si modifichi, si trasformi, si sposti, diventi, in una certa misura e fino a un certo punto, diverso da se stesso per avere diritto ad avere accesso alla verità. La verità è data al soggetto solo ad un prezzo che mette in gioco l’essere stesso del soggetto…Credo che questa sia la formula più semplice, ma la più fondamentale, con la quale si può definire la spiritualità. La conseguenza è che, da questo punto di vista, non può esserci verità senza una conversione o una trasformazione del soggetto… Credo che occorra capire bene il grande conflitto che ha attraversato il cristianesimo, dalla fine del V secolo (Sant’Agostino senza dubbio) fino al XVII. Durante questi dodici secoli, il conflitto non è stato tra la spiritualità e la scienza: è stato tra la spiritualità e la teologia», che ha fondato «il principio di un soggetto conoscente in generale», indipendente dalla trasformazione del Sé. Per spiritualità Foucault intende un’esperienza di metamorfosi, non dunque una conoscenza di un oggetto da parte di un soggetto, ma un soggetto che si prende cura di sé e accetta un processo di metamorfosi o di conversione interiore.

In un frammento del 1921, Il capitalismo come religione[1], Walter Benjamin ha messo in rilievo come il debito sia diventato l’oggetto di culto di una vera e propria teologia del danaro, che ha sostituito in larga misura la “teologia politica”. Benjamin radicalizza le idee di Weber sul rapporto tra modo di produzione capitalista e cristianesimo. Se per Weber il capitale nella sua forma moderna è stimolato dalla concezione calvinista della grazia e del peccato e poi procede alla sua secolarizzazione profana, per Benjamin è esso stesso religione: priva di dogmi, ma con un suo culto ineluttabile e continuo e un “dio minore” che ne perpetua il destino. «Il capitalismo -scrive Benjamin- è la celebrazione di un culto sans trêve et sans merci. Non esistono “giorni feriali” non c’è alcun giorno che non sia festivo, nel senso terribile del dispiegamento di tutta la pompa sacrale, dell’estrema tensione che abita l’adoratore»[2]. Oggetto di questo rito è la merce, emanazione visibile della astrazione sovrasensibile e spirituale del danaro.

«Qui sta ciò che nel capitalismo è senza precedenti: che la religione non è più riforma dell’essere, ma la sua completa rovina. L’estensione della disperazione a condizione religiosa cosmica dalla quale ci si attende la salvezza: La trascendenza di Dio è venuta meno. Ma Egli non è morto, è stato incluso nel destino umano»[3]. L’astrazione del danaro, il feticismo della merce, la burocrazia tecnocratica costituiscono la trinità sovrasensibile di questa religione senza redenzione, che sembra confermare la visione gnostica, secondo cui il mondo è governato da un dio minore e perverso, nemico del Dio della luce. Non sarebbe esatto parlare di secolarizzazione: si tratta piuttosto di un culto interamente immanente, che riprende pervertendole le forme del sacro e distrugge qualsiasi idea di trascendimento dell’esistente. Il sistema religioso «è così precipitato in un movimento mostruoso», destinato ormai a produrre, invece che a espiare la colpa. La religione cultuale del capitalismo «trasporta la trascendenza nell’ambito dell’immanenza e abbassa ciò che è superiore fino a portarlo al livello del campo inferiore. Sia ciò che è contro la legge, sia ciò che è al di sopra di essa…si trasformano in azioni illegali»[4].

Le forme del sacro non sono semplicemente scomparse nel funzionamento “moderno” del capitale, come se un rischiaramento illuministico le avesse dissolte: esse sono invece onnipresenti, ma regredite allo statuto di formule magiche, dis-torte, dis-tolte da ciò che erano in origine. È avvenuto quel “dissesto” minimo ma decisivo, che per Benjamin era caratteristico dell’universo kafkiano. La tradizione sembra quasi immutata nella sua vigenza, eppure ha subito il piccolo, inappariscente spostamento, che la allontana infinitamente dalla redenzione-liberazione e la rende schiava della potenza. La religione non si è dissolta, «il religioso, il sacro, il divino, per un oscuro processo di osmosi, sono stati assorbiti e occultati in un qualcosa di alieno…Con Kafka un fenomeno invade la scena, la commistione. Non c’è angolo sordido che non si lasci trattare come metafisica. E non c’è metafisica che non si lasci trattare come angolo sordido»[5].

Nei suoi ultimi scritti, Benjamin ha contrapposto la «debole forza messianica» alla teologia demonica del capitale. Una forza messianica e rivoluzionaria, per quanto debole, è pure presente nella storia: ma essa è l’opposto di una realizzazione positiva e definitiva, di un potere, di uno Stato o di una Chiesa, che si affermi come istituzione finale. L’azione storica deve dunque essere definita, nella sua profanità, al di fuori di qualsiasi teleologia teologica e da qualsiasi immanenza teocratica: le quali vanno sottoposte alla negatività radicale di un “carattere distruttivo”. Solo nello spazio sgombrato dalle loro macerie può sorgere l’immagine della redenzione, la felicità come traccia del mondo messianico: in quanto è tale porsi e disciogliersi continuo, sgretolamento di ogni forma ossificata e consistente di potere, anarchica, cioè diffidente verso ogni principio statuale immobile, l’idea di redenzione messianica esalta l’appagamento sensoriale-psichico dell’uomo, il suo essere creaturale e corporeo, e si oppone diametralmente all’astratto della religione del capitale, che costringe nella sua ossatura immutabile il fluire della vita. Per darne un’immagine Benjamin cita Focillon: «Breve attimo di pieno possesso delle forme, si presenta … come una felicità rapida, come l’acme dei Greci: l’asta della bilancia oscilla solo debolmente. Ciò che mi aspetto, non è di vederla nuovamente pendere da una parte, ancor meno il momento della fissità assoluta, ma, nel miracolo di questa esitante immobilità, il tremito leggero, impercettibile, che mi indica che essa vive»[6].

L’astrazione del capitale si pone non come semplice negazione, ma come dis-torsione del ritmo messianico della natura. Apparentemente le sue sono leggi di movimento, che pongono e tolgono ogni ordine statico e nulla lasciano sussistere di stabile e positivo; ma dietro questa apparenza di metamorfosi esse costringono i corpi viventi nel sempre uguale della valorizzazione del capitale. All’annullamento della felicità, Benjamin oppone il nichilismo attivo, distruttivo di ogni armatura astratta o istituzionale, che impedisca il fluire creaturale dell’uomo; il dio del capitale può sognarsi come struttura permanente e assoluta: al contrario, la singolarità felice accetta il proprio limite e il venir meno nel ritmo della natura. Tale nichilismo che non esclude, ma presuppone la gioia, e la prende come unità di misura del suo agire rivoluzionario, è “la via verso un Nulla”, che colpisce tutte le determinazioni del potere e da cui sorge però la corrispondenza generativa tra il singolo e il cosmo.

Nel saggio sulle Affinità elettive, una “esitante immobilità” è l’attimo di trapasso dall’estetico all’etico, in assonanza con l’insegnamento di Kierkegaard; un concetto simile compare nel Frammento teologico-politico. L’ora della felicità segna il passaggio all’ “eternità di un tramonto” e in questo venir meno «la natura è messianica per il suo eterno e totale passare», il suo divenir nulla è insieme traccia della potenza indicibile, che porrà termine alla storia, ma che non è essa stessa storica. Distruggere tutte le istituzioni che impediscono all’uomo una simile esperienza della felicità è allo stesso tempo l’imperativo anarchico della politica e il nucleo di una teologia dell’alterità opposta a quella demonica del denaro.

Al rapporto tra discioglimento e appagamento si riferisce la figura dell’Angelo, così ricorrente nell’opera di Benjamin. Innanzitutto, quelli che appaiono nella presentazione della rivista “Angelus Novus”: per loro, compimento e caducità coesistono nell’attimo del canto di lode. Essi furono creati perché «dopo aver cantato il loro inno al cospetto del Signore, cessino e svaniscano nel nulla», senza divenire arconti del dominio, come gli oscuri Signori del Tribunale e del Castello kafkiani.

A partire dagli anni Trenta e fino alle Tesi” subentra un nuovo tema: l’attimo del compimento è anche quello della condensazione e della redenzione del tempo perduto, del passato e del possibile incompiuti. L’Angelo vuole «la felicità: il contrasto in cui l’estasi dell’unicità, della novità, del non ancora vissuto, è unita a quella beatitudine della ripetizione, del recupero, del vissuto»[7]. Questa coesistenza di differenza e ripetizione prelude alle considerazioni della seconda delle tesi sul concetto di storia. Grazie all’ «eco di voci ora mute», per dare compimento e felicità anche a ciò che fu sfigurato dal dolore, ci è consegnata la “debole forza messianica”, indice segreto della redenzione, a cui allude la materialistica frase di Hegel, posta da Benjamin in epigrafe alla tesi IV: «Cercate innanzitutto cibo e vesti, e il regno di Dio vi sarà dato in sovrappiù».

Altri punti di riferimento sono stati per noi Bonhoeffer, Bloch, Weil[8]. Il tratto comune di autori per altro così diversi ci è parso quello di portare la loro esperienza spirituale ai limiti o oltre i limiti della loro religione di origine o di appartenza fino a contestarne i fondamenti dogmatici e istituzionali. Essi hanno anche congiunto il proprio percorso personale a un’esperienza politica di resistenza e di contestazione dell’ordine di potere esistente del capitale: non può darsi spiritualità laddove i bisogni elementari dell’uomo siano calpestati o la sua stessa identità annientata, come è avvenuto nei campi di sterminio, ma come avviene ancor oggi nei campi profughi della Libia o della Bosnia. Questi autori propongono un’esperienza che è innanzitutto, come sosteneva De Martino, funzione di trascendimento dell’esistenza data e sfigurata dal capitale. Questo è anche il senso di una rilettura “a contrappelo” del passato, che rivaluti le forme di spiritualità che si sono poste “ereticamente” in contrasto con le religioni istituzionali e la legittimazione dei poteri esistenti.

La situazione che stiamo vivendo ci pone radicalmente a confronto con la fragilità della nostra esistenza, con la malattia e con la morte e con l’incapacità di questo ordine sociale ed economico di dare un senso e una risposta sia alla crisi interiore che a quella collettiva. È un intero mondo, un intero ordine simbolico che è sul punto di sfaldarsi mentre il nuovo non mostra il suo contorno, e noi viviamo in un essere sospeso tra il non più e il non ancora, un po’ come Egli in un frammento di Kafka, strattonato da due forze opposte di pari intensità e posto su una kampflinie (linea di lotta): «Egli ha due avversari: il primo lo incalza alle spalle, dall’origine, il secondo gli taglia la strada davanti. Egli combatte con entrambi», situazione che Hannah Arendt ha definito come «una breccia (gap) del tempo».

Come affermava Hölderlin è questo il momento di un “divenire nel trapassare”, in cui nuovi possibili possono emergere dalla loro latenza, ma anche quello in cui è estremo il pericolo della dissoluzione: in cui può palesarsi una nuova forma di vita, un “dio a venire”, oppure in cui il vecchio mondo può trascinarci nel suo tramonto; un attimo di cesura della storia in cui «l’ordine consueto delle cose è destinato a infrangersi e a spegnersi in un vago presentimento dell’ignoto» (Hegel). Con tutta l’umiltà possibile vorremmo cominciare a interrogarci su quali forme dare a questo presentimento, a partire dagli stati d’animo e dalle figure che sta assumendo la nostra vita interiore.

 

Note:

[1] W. Benjamin, Capitalismo come religione, Il Melangolo, Genova 2013.

[2] Ivi, p. 43.

[3] Ibid.

[4] S. Kracauer, Il romanzo poliziesco, Editori Riuniti, Roma 1984, p. 33.

[5] R. Calasso, K., Adelphi, Milano 2005, p. 33.

[6] H. Focillon, Vie des formes, Paris, 1981, p. 19. Cfr. W. Benjamin, materiali preparatori a Über den Begriff der Geschichte, Gesammelte Schriften, vol. I-3, Suhrkamp, Fr. am Main 1980, pp. 1229-1230.

[7] W. Benjamin, Sul concetto di storia, Einaudi, Torino, 1997, p. 242.

[8] A Benjamin, Bloch e Kracauer e alla loro particolare riattualizzazione del messianismo, abbiamo deciso di dedicare un approfondimento in un ulteriore numero della rivista. In questo, per ragioni di spazio, non sarebbe stato possibile.